Antonio Tabucchi: Il padrone della tabaccheria

31 Gennaio 2007
Nella lezione inaugurale al Collège de France del 7 gennaio 1977, Roland Barthes afferma: ‟La letteratura lavora negli interstizi della scienza: è sempre in ritardo o in anticipo su di essa, simile alla pietra di Bologna che irradia durante la notte ciò che ha immagazzinato durante il giorno e grazie a questa luce indiretta illumina il giorno a venire. La scienza è rozza, la vita è sottile, ed è per correggere questa distanza che la letteratura ci importa”. La vita è sottile, è vero, ma aggiungerei che è anche insufficiente: ‟La letteratura, come tutta l’arte, è la dimostrazione che la vita non basta” (Fernando Pessoa).
La letteratura offre la possibilità di un di più rispetto a ciò che la natura ci concede. E in questo di più è inclusa l’alterità, il piccolo miracolo che ci è concesso nel viaggio della nostra breve esistenza: uscire da noi stessi e diventare "altri". Dell’eteronimia di Fernando Pessoa si è ormai impossessata quella cultura middlebrow promossa da certi media che prediligono lo scalpore e il sensazionale, trattandola alla stregua di un caso clinico, direi, di un ‟effetto speciale”. E divulgando il poeta come un fenomeno da baraccone, una sorta di ‟deviante”. Naturalmente la poetica di Pessoa, pur nella sua radicale impostazione, è intrinseca alla letteratura di sempre. Quale ‟commedia umana”, in versione moderna e realizzata in poesia è la stessa di Shakespeare, Cervantes, Balzac.
Cervantes disse di se stesso di essere simultaneamente Don Chisciotte e Sancho Panza. Sappiamo che Shakespeare non fu principe di nessuna Danimarca. Flaubert sosteneva che Madame Bovary era lui, ma niente ci impedisce di pensarlo come la vecchia domestica Félicité di un Cuore semplice. Baudelaire ha scritto: ‟Come delle anime erranti che cercano un corpo, egli può entrare, quando più lo vuole, in ogni personaggio”.
La letteratura non è stanziale, è nomade. Non solo perché ci fa viaggiare attraverso il mondo ma soprattutto perché ci fa attraversare l’animo umano. Inoltre è correttiva, perché è l’unica possibilità che ci è concessa di modificare gli avvenimenti e di correggere la Storia più matrigna. Perché è il territorio del possibile, della libertà assoluta. Rinchiuso nel forte di Taureau, presso Morlaix, Auguste Blanqui, dopo la disfatta della Comune, prende la sua rivincita sugli avvenimenti che lo hanno schiacciato. Partendo dalle teorie sull’universo di Laplace, e dunque con un rigore assolutamente scientifico, seppur applicandolo a una pura ipotesi, egli riprende l’idea dell’infinità dell’Universo, del Tempo e dello Spazio, iscrivendo la sua ipotesi in un’infinità di mondi possibili, con un’infinità di storie possibili, ciascuna in fondo uguale a se stessa ma con varianti di esiti diversi.
Così, per esempio, in un luogo indeterminato del tempo e dello spazio, anywhere, gli stessi comunardi avranno vinto la battaglia e affermato i loro ideali, e lo stesso Blanqui, identico a se stesso ma in una delle sue possibili varianti, invece di provare la profonda amarezza della disfatta, vedrà il trionfo dei suoi ideali. L’Eternité par les astres, libro singolare e straordinario di un non-letterato, è in realtà grande letteratura e senza dubbio uno dei libri più rivoluzionari della fine dell’Ottocento. Senza il quale, aggiungo, un grande scrittore come Jorge Louis Borges forse non sarebbe mai esistito.

Perché si scrive? La domanda, inevitabile, ritorna sempre, anche se si cerca di evitarla, simile a certe pie signore dedite alla loro catechesi che tutte le domeniche implacabilmente vengono a suonare alla porta. Ma anche la risposta più radicale come quella di Beckett (‟perché non sono buono a nient’altro”) è evidentemente insufficiente e ispirata da una modestia che con l’autoderisione non risolve il problema. Conosco decine di persone che non sono ‟buone a nient’altro” e che in vita loro non hanno mai scritto una riga. Del resto le risposte possibili sono tutte plausibili senza che nessuna davvero lo sia. Si scrive perché si ha paura della morte? E’ possibile. O non si scrive piuttosto perché si ha paura di vivere? Anche questo è possibile. Si scrive perché si ha nostalgia dell’infanzia? Perché il tempo è passato troppo in fretta?
Perché il tempo sta passando troppo in fretta e vorremmo fermarlo? Si scrive per rimpianto, perché avremmo voluto fare una certa cosa e non l’abbiamo fatta? Si scrive per rimorso, perché non avremmo dovuto fare quella certa cosa e invece l’abbiamo fatta? Si scrive perché si è qui ma si vorrebbe essere là? Si scrive perché si è andati là ma dopotutto era meglio se restavamo qui? Si scrive perché sarebbe davvero bello poter essere qui dove siamo arrivati e allo stesso tempo essere anche là dove ci trovavamo prima? Si scrive perché ‟la vita è un ospedale dove ogni malato vorrebbe cambiare letto. L’uno preferirebbe soffrire accanto alla stufa, e l’altro è convinto che guarirebbe vicino alla finestra” (Baudelaire)?
O non si scriverà piuttosto per gioco? Ma non il puro gioco, come pretendeva l’avanguardia dell’avantieri in Italia e anche altrove, cioè la letteratura intesa come parole crociate che è tanto utile per ammazzare il tempo. Il gioco naturalmente c’entra, ma è un gioco che non ha niente a che vedere con gli scherzi in cui eccellono certi giocolieri, i prestidigitatori della domenica che sanno come dilettare lo spettabile pubblico. E’ semmai un gioco che somiglia a quello dei bambini. Di una terribile serietà. Perché quando un bambino gioca mette tutto in gioco. Prende una pietruzza e seduto sul gradino di casa, mentre scende la sera, reggendo la pietruzza sul palmo della mano dice che quella pietruzza è il mondo.
Sottolineo: non lo pensa soltanto, ma lo dice, perché è solo quando lo dice che il sortilegio si avvera e la pietruzza diventa il mondo: è il patto assoluto. Il bambino sa che se quella pietruzza cadesse il mondo precipiterebbe, l’universo in cui il mondo gira sarebbe perturbato, gli astri impazzirebbero e avanzerebbe il caos. Egli sa che finché durerà il suo gioco avrà nelle mani le sorti del mondo. Fino al momento in cui il padre appare nel riquadro della porta sorridendo, la cena è in tavola, si sta facendo freddo, domani è giorno di scuola, e ora bisogna rientrare.
Il Padrone della Tabaccheria ha sorriso. Senza rendermene conto sono arrivato al punto culminante di una sublime poesia dell’eteronimo di Fernando Pessoa Alvaro de Campos, Tabaccheria, nella quale c’è un’analogia con la risibile e angosciosa dialettica baudelairiana fra la stufa e la finestra. Al posto della stufa c’è una sedia in fondo alla stanza dove ogni tanto il poeta va a sedersi per riflettere, assaporando certe intuizioni (le sue epifanie) che gli sono suscitate guardando dalla finestra della sua mansarda la bottega di tabacchi sull’altro lato della strada, dove la gente entra ed esce, e dove c’è vita, come nella vita.
Ma ecco che: ‟Un uomo è entrato nella Tabaccheria (per comprare tabacco?), / E la realtà plausibile si abbatte all’improvviso su di me. / Mi raddrizzo energico, convinto, umano, / E mi riprometto di scrivere questi versi per sostenere il contrario. [...] / Ma un uomo è uscito dalla Tabaccheria (infilandosi in tasca il resto?). / Ah, lo conosco: è l’Esteves senza metafisica. / (Il padrone della Tabaccheria si è fatto sulla soglia). / Come per un istinto divino Esteves si è girato e mi ha visto. / Mi ha fatto un cenno di saluto, io gli ho gridato ‟Ciao, Esteves!”, e l’universo / Mi si è ricostruito senza ideale né speranza, e il padrone della Tabaccheria ha sorriso”.
Ma chi è il Padrone della Tabaccheria? Questo è il problema. E poi perché sorride, forse in maniera ironica o addirittura con bonaria sufficienza, quasi a indicare al poeta che è vano fare domande alla vita e al mondo, è vano chiedere alla sua Tabaccheria di rivelarci il mistero del tutto? In quel sorriso c’è qualcosa di leonardesco, mi spingerei a dire, come se si trattasse dell’imperscrutabilità delle cose, del limite della conoscenza umana che il genio di Leonardo ha raffigurato in forma di sorriso sulle labbra della Gioconda e di San Giovanni, un qualcosa che Ortega y Gasset definì ‟ineffabile”. Ti è stato concesso il privilegio di conoscere fino a un certo punto, non puoi andare oltre, sembra dire quel sorriso. Come il padrone della Tabaccheria, il padrone del Circo, salutando il pubblico, sorride. Lo spettacolo è finito. La letteratura si ferma qui, comincia il mistero della vita. E la letteratura si rimette subito al lavoro.

Antonio Tabucchi

Antonio Tabucchi (Pisa, 1943 - Lisbona, 2012) ha pubblicato Piazza d’Italia (Bompiani, 1975), Il piccolo naviglio (Mondadori, 1978), Il gioco del rovescio (Il Saggiatore, 1981), Donna di Porto Pim (Sellerio, 1983), Notturno indiano (Sellerio, 1984), I volatili del Beato Angelico (Sellerio, 1987), Sogni …