Vittorio Zucconi: Il killer venuto da Srebrenica

20 Febbraio 2007
Era fuggito dal massacro, ma il massacro non era fuggito da lui. Lo aveva seguito paziente attraverso due continenti, un mare e un oceano, dormendogli dentro le ossa e pronto a svegliarsi, magari in uno shopping center dello Utah addobbato con stupidi e teneri festoni per San Valentino, trasformato per cinque minuti di fuoco e di sangue in una piccola Srebrenica nel West. Quando Sulejman Talovic ha estratto la pistola calibro 38, due estremità del mondo separate da diecimila chilometri e da secoli di storia, si sono mescolate nel sangue dei cinque morti e dei quattro feriti che ha colpito, prima di essere abbattuto dalla polizia. Eppure Sulejman era un uomo molto fortunato. Aveva appena quattro anni quando sua madre, dopo l’assassino del padre, riuscì a portarlo via con lei nel 1993 dal villaggio bosniaco di Talovici, per rifugiarsi a Srebrenica e illudersi di ripararsi dai Serbi sotto la immaginaria protezione dell’Onu. Quella fuga notturna della madre e del bambino li strappò a una piccola strage per piombarli nella grande strage di Srebrenica dove almeno 8 mila bosniaci furono uccisi soltanto nell’olocausto del 1995. Ma ancora, qualche strana e pietosa divinità doveva proteggere Sulejman e la madre, perchè scamparono anche ai ‟killing fields” di Srebrenica per ritrovarsi in viaggio verso la terra promessa, l’oasi, quell’America che concesse loro il visto da rifugiati politici, poi addirittura la residenza permanente. Come 7 mila altri bosniaci musulmani, anche loro scivolarono sul piano inclinato del continente americano verso l’Ovest, e il loro ruzzolare si arrestò alle Montagne Rocciose, a Salt Lake City, nella terra dei grandi laghi essiccati, dei dinosauri fossili, dei Mormoni potenti, nello Utah. La storia dei Talovic sarebbe dovuta finire qui, in una parabola orrenda ma a lieto fine. Il bambino, Sulejman, aveva assaggiato con la madre un bocconcino di "sogno americano", una casetta a un piano e due stanze da letto fuori città, la high school americana, il solito bar- ristorante etnico con sedie di formica, vetrine unte e falafel Bosnia, il televisore sempre sintonizzato su qualche partita di calcio via satellite, ma il sapore non gli era piaciuto. Aveva lasciato la high school a 16 anni, nel 2004, senza finirla, aveva lavorato come uomo di fatica in una fabbrica di uniformi, aveva guardato molta tv. Vestiva sempre di nero, come gli assassini della scuola di Columbine in Colorado o forse come gli shahid, i criminali suicidi della jihad armata. Non era particolarmente religioso, non era considerato un buon mussulmano. Da qualche parte - la polizia non sa dove, ma nello Utah dove è più facile acquistare armi che liquore non deve essere stato difficile - si era comperato una calibro 38, teoricamente illegale per un diciottenne. Poi, il 12 febbraio, l’antivigilia di San Valentino, l’ingresso nel Trolley Square Shopping Center, 50 negozi del solito ciarpame, cartoline d’auguri prestampate, abbigliamento, scarpe, video giochi, gioielleria modesta, jeans, carabattole di plastica. Ci entra per uccidere, sapendo che questa volta non sarebbe uscito vivo dalla Little Srebrenica dove lui sarebbe stato la tigre e non la preda. Spara e ricarica, ricarica e spara. Ha una bandoliera da ‟viva Zapata” e uno zainetto gonfio di munizioni... Abbatte nove persone: due uomini, di 52 e 24 anni, poi tre ragazze tutte sotto i 30, una, Kristin Hinkley, di15 anni. Ne ferisce altri quattro, carica, ricarica, spara. Smette di sparare soltanto quando Kenneth Hammond, un agente di polizia fuori servizio che stava mangiando un gelato con la moglie, ma con la pistola d’ordinanza sotto il giubbotto, lo uccide. Quello che Milosevic non era riuscito a fare in Bosnia, un poliziotto mormone fa nello Utah mentre mangia un gelato. Aveva 18 anni. Qualcuno annuisce, tutto previsto. In un altro bar, dove si ritrovano i serbi a guardare le stesse partite di calcio, qualcuno dice alle tv locali ‟ecco, visto?, sono tutti così i Bosniaci musulmani”, e adesso anche l’America che li aveva difesi, prova il gusto della propria medicina. Per gli irriducibili venuti dalla Serbia, questo ragazzo in nero era un terrorista islamico, una cellula di quel male che loro, i Serbi, avevano tentato di seppellire nelle fosse comuni per salvare l’Occidente cristiano. ‟è un chiaro caso di sindrome ritardata della jihad”, scrive uno che si firma David Hanko, su un blog di affari religiosi: ‟Questi mussulmani sono così, non si integrano mai, vengono indottrinati e poi lanciati contro il nemico cristiano. Sulejman ha scelto la festività che i jihadisti considerano empia, la festa cristiana di San Valentino”. Una definizione, quella di ‟cristiana” attribuita a San Valentino, che stupirebbe ogni vescovo. ‟Ci sono quasi sette mila profughi bosniaci qui in mezzo ai Mormoni da 10 anni e non c’è mai stato alcun problema fra di noi”, risponde la zia, Ajka Omerovic. ‟Nessuno ha mai accusato i cristiani di essere terroristi quando ammazzano bambini e ragazzi nelle scuole americane”. I padri della città, che vanta la quiete disciplinata del proprio vivere e che ora ha anche un candidato mormone alla presidenza, Mitt Romney, non vogliono schizzi di "guerre di civiltà", organizzano forum, incontri fra le comunità serbe e quelle bosniache. Qualcuno ha appeso una immaginetta della Madonna alla porta della casa dove viveva il ragazzo di Srebrenica, per sfottere, per marcare un territorio. La polizia è inquieta. Nei loro bar ristoranti, ultime enclaves western di una tragedia balcanica, i serbi continuano a friggere le loro salsicce di maiale, i bosniaci a rosolare le loro pecore e a odiarsi. Puoi portare un uomo fuori da Srebrenica, ma non puoi portare Srebrenica fuori da un uomo.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …