Vittorio Zucconi: La parabola dei due George Bush "arruola" Washington

20 Febbraio 2007
Poiché ormai pochi sarebbero disposti a votare ancora per lui, in Parlamento e nel paese, George Bush tenta un grande balzo verso il passato e arruola un augusto elettore morto che ha soltanto la sfortuna dell’omonimia. Ormai a corto di appoggi internazionali e di sostegno interno, auto-intrappolato tra una guerra indifferente alle nuove strategie ‟per la vittoria” e un Congresso che medita di tagliargli i fondi, George fa appello a George e invoca un alleato immaginario defunto da 208 anni: il primo presidente degli Stati Uniti, Washington. Il ‟padre della patria”, l’altro George, che ai bambini delle elementari viene raccontato come ‟colui che non disse mai bugie nella vita”, sarebbe sorpreso, e non con piacere, di essere stato gemellato con questo George colto più volte a mentire pubblicamente. La disperazione, come la politica, produce strani compagni di letto, soprattutto quando uno dei due non può obbiettare.
Ma se il piccolo George del 2007 ha approfittato della cerimonia anticipata per il compleanno del grande George, nato il 22 febbraio del 1732, sicuro che Washington non potesse rispondere, per pura coincidenza e dispettosità della storia proprio ieri, dai cassetti di una famiglia del Maryland che l’aveva custodito per oltre due secoli e lo ha ceduto agli archivi nazionali, è riaffiorato un documento storico che suona come una risposta attraverso il tempo. È il manoscritto originale del discorso di addio alle armi che il generalissimo delle armate rivoluzionale americane, il vincitore della guerra d’indipendenza contro i mercenari di Re Giorgio (un altro), pronunciò davanti al Congresso raccolto ad Annapolis, in Maryland, per rinunciare al comando e alla guerra. E soprattutto per mettere i futuri Stati Uniti al riparo da ogni tentazione cesarista, monarchica o avventurista.
Soltanto nella sfortunata corrispondenza dei nomi, George, e nella affannosa quando fantasiosa ricerca di stampelle retoriche per ridare lustro a una presidenza che raccoglie poco più del 30 % dell’approvazione pubblica nei sondaggi, Bush e i suoi propagandisti potevano trovare appigli per questo grande balzo all’indietro. Un abbraccio che, fra le molte incongruenze, tenta di avvicinare il super ‟cristiano rinato” del Texas con il dichiarato massone e piantatore virginiano, Washington.
Oggi come allora, ha detto Bush parlando nella festa nazionale dedicata ai Presidenti, sul terreno della bella piantagione alle porte della capitale, a Mount Vernon, dove Washington viveva con la moglie Martha, ‟l’America sta combattendo un’altra guerra per difendere la nostra libertà, il nostro popolo e il nostro modo di vivere”; e ‟non dobbiamo dimenticare che Washington era certo che le libertà conquistate da lui per la nazione non fossero riservate soltanto a noi”. La guerra in Iraq come perfetta continuazione della guerra d’indipendenza, dunque. E lo sforzo di aggrapparsi alla redingote del primo presidente si è fatto ancora più esplicito quando il George in carica fino a gennaio del 2009 ha notato che il successo dell’altro George fu soprattutto ‟una prova di determinazione”, che ebbe successo perché si rivelò ‟incrollabile”.
Qui sta la chiave per capire l’insistenza nel continuare su una strada che ormai praticamente soltanto lui, e il suo vice e padrone, Dick Cheney, considerano giusta, ed è la confusione tra ostinazione e determinazione, manifestata in quella formula di ‟mantenere la rotta” che Bush ha abbandonato nei discorsi, ma rispetta nelle scelte. La propria ‟determinazione” è ormai la profezia che avvera sé stessa e che ora fruga nella storia americana per trovare conferme. Ma il sospetto che fra l’ostinazione del grande George, che combatté e vinse contro tutti una guerra per l’indipendenza delle 13 colonie britanniche in America, e la tenacia del piccolo George nel continuare una guerra su un territorio straniero e lontano che aspira alla propria indipendenza anche dal protettorato americano, non sfiora il Presidente né coloro che gli scrivono i discorsi interpretando i suoi sentimenti.
Qualsiasi pagliuzza, anche la più sottile come questo tentativo di iscrivere il povero George Washington fra i consiglieri neo-con, è necessaria per ingaggiare la battaglia politica decisiva, quella contro un Congresso che ha già votato una mozione simbolica di sfiducia contro la guerra e ora dovrebbe ingoiare altri 100 miliardi di dollari supplementari, e oltre il bilancio della difesa. Un duello politico mortale, per Bush, e difficilissimo, ore che il segretario di stato Condi Rice fallisce le missioni diplomatiche, la guerriglia riprende puntuale i massacri di iracheni e di soldati americani e Washington - nel senso della capitale - è agitata dagli spettri di un attacco all’Iran che la Casa Bianca agita utilizzando incredibilmente gli stessi trucchi e le stesse "mezze rivelazioni" che furono adoperate quattro anni or sono per vendere al pubblico l’invasione dell’Iraq.
E nessuno come Washington - nel senso del generale e primo presidente - sarebbe stupito di essere assimilato a questa strategia di bellicosità e di interventismo fondata su farneticazioni ideologiche, proprio lui che tra i primi atti della sua presidenza, nel 1973, produsse uno dei testi fondamentali della storia diplomatica americana, l’”atto di neutralità” nei confronti dei conflitti oltremare, e nel suo discorso d’addio additò la strada del ‟non interventismo” per l’America. O forse questo George pensa che anche l’altro George dicesse e scrivesse cose che neppure lui prendeva sul serio.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …