Vittorio Zucconi: L'America incerta a quattro anni dall’Iraq

19 Marzo 2007
Comincia oggi, anniversario del primo bombardamento "shock and awe", scuoti e spaventa, su Bagdad nella notte del 19 marzo 2003, il quinto anno di guerra in Iraq, ormai il secondo più lungo conflitto internazionale nella storia bicentenaria degli Stati Uniti. Eppure, dice il ministro della Difesa Robert Gates mentre il Presidente per ora tace e sorvola sull’anniversario, dopo quattro anni, 3.218 soldati americani uccisi, 23.417 militari feriti, decine, o forse centinaia, di migliaia di iracheni morti, un milione e mezzo di profughi interni e sfollati, un’elezione popolare salutata come la svolta decisiva e quasi 500 miliardi di dollari spesi, è ancora ‟troppo presto” per giudicare.
Anche con l’escalation in corso, che porterà a 160 mila il numero delle truppe americane al fronte per la prossima estate, ‟stiamo cercando di dare il tempo al governo e alle istituzioni locali per prendere il controllo del Paese”, dice sempre il successore del non rimpianto architetto ed esecutore della disastrosa strategia irachena, Donald Rumsfeld. Neppure negli anni del Vietnam dopo l’offensiva comunista del 1968 che sgretolò il morale del fronte interno, una guerra su fronti lontani, combattuta per cause sempre più fangosamente oscure se non dimostrabilmente false, aveva creato, nell’opinione pubblica americana uno stato di confusione, di incertezza e di contraddizione paragonabile a quella che l’Iraq sta producendo.
Il Parlamento, eletto lo scorso novembre, brancola in una serie di pasticciate proposte di ritiro delle truppe, sconfitte per un voto al Senato dove i democratici hanno una maggioranza paragonabile a quella del centro sinistra in Italia e di mozioni simboliche senza valore di legge, riuscendo a irritare e confondere il pubblico, facendosi accusare di arrendismo, senza in realtà esserlo. I sondaggi illuminano perfettamente questo stato confusionale, indicando nel 67% la proporzione di americani convinti che la guerra stia andando male, osteggiando al 59% la escalation di Bush, ma poi dividendosi esattamente a metà, 46 contro 46, alla domanda se l’America ‟possa ancora vincere”. Come, con quali mezzi, in quanto tempo, a qual prezzo, naturalmente non viene indicato. Bisogna cercare celebrità e personaggi fuori dalla politica, o dalla vita quotidiana dei cittadini, come Donald Trump, per trovare risposte trancianti: ‟Bush è il peggior presidente della storia americana” ha sentenziato il miliardario di New York.
All’alba del suo quinto anno, questa avventura irachena, partita con la solenne promessa che sarebbe durata ‟qualche settimana, mese al massimo” secondo un altro dei suoi profeti ciechi, Paul Wolfowitz, anch’egli passato nel frattempo ad altro incarico, è una guerra senza più difensori, ma anche senza convinti oppositori. Le manifestazioni pacifiste sono rare e sparute, nulla che ricordi le alluvioni di folle che chiedevano a Lyndon Johnson ‟quanti ragazzi hai ucciso oggi”. La constatazione che il governo aveva mentito sulle ragioni della guerra (54% degli interrogati lo pensano) è accettata con rassegnazione, con fatalismo, nell’attesa, ancora lunga ma inevitabile, che comunque questo gruppo dirigente, già in parte disintegrato e prossimo a perdere forse anche uno dei suoi pilastri, il ministro della Giustizia e favorito personale di Bush, Alberto Gonzales, sia storia passata.
Con una media di gradimento inchiodata attorno al 34%, Bush è la notizia di ieri. Ma le conseguenze delle sue scelte sono la cronaca di domani. Restano pochi superstiti anche della garrula claque neocon, i supponenti teorici del "cambio di regime" e della "guerra preventiva" ormai generalmente screditati, che sui loro organi, come il Weekly Standard informano con il direttore William Kristol che la "surge", la montata di truppe, l’eufemismo orwelliano per l’escalation, ‟sta funzionando” e ‟la buona partenza è un buon auspicio per il progresso verso la vittoria”, se soltanto ‟quegli idioti a Washington” (l’opposizione democratica) lo lasciassero lavorare. Dimenticando che per tre anni e dieci mesi, il Parlamento ha lasciato al Presidente la più completa mano libera. Straziante, nelle sue acrobazie per negare senza rinnegare, anche il Washington Post, uno di quei media liberal ma favorevoli inizialmente alla guerra che oggi ricorda l’anniversario dell’attacco avvertendo che ‟andarsene via ora peggiorerebbe soltanto la situazione”, ma chiede ‟una diminuzione progressiva dell’impegno militare”, perché ‟avevamo sottovalutato la brutalità delle forze che tutte le guerra scatenano”.
È una sorta di schizofrenia, favorita dal limitato numero di famiglie che soffrono le conseguenze della guerra grazie all’esercito professionale, che si riflette perfettamente nelle posizioni degli aspiranti alla Casa Bianca, dove soltanto il senatore Barack Obama può dire di essere sempre stato contrario, mentre Hillary Clinton si divincola nella formula del ‟sarei stata contraria se avessi saputo allora quello che so oggi”, la classica e poco credibile giustificazione del "senno di poi". In realtà la politica, i media senza pregiudizi faziosi, l’opinione pubblica vivono uno stato di "coscienza sospesa", di dormiveglia fra due incubi, quello di perdere una guerra che nessuno aveva chiesto all’America di combattere ma che non si vuole perdere, e quello di continuare su un piano inclinato scivoloso che porterà a nuovi morti, a nuove vergogne e a ulteriori collassi dell’immagine e del prestigio americani nel mondo.
Tutti, anche quelli che non lo ammettono, sperano ora nel miracolo del generale David Petraeus, nuovo comandante sul campo, che dovrebbe creare l’impressione della stabilità almeno a Bagdad per coprire la ritirata di un esercito costruito per operazioni lampo che non regge più l’impegno di una guerriglia senza fine. Salvare una presidenza dal disastro e una nazione dai propri tormenti spetta così, ironicamente, proprio a quel generale, a Petraeus, che quattro anni esatti or sono, quando ricevette l’ordine di entrare in Iraq dal Kuwait al comando della 101esima divisione, rispose a chi gli diceva, generale, ci siamo la guerra è cominciata: ‟Questo lo so, ma spiegatemi come faremo a finirla”.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …