Vittorio Zucconi: Quell’incubo di 27 anni fa che ancora turba l’America

02 Aprile 2007
‟Io non voglio essere come mio padre, voglio essere come Reagan”, disse il Presidente George W. Bush a Bob Woodward e la storia sembra volergli dare l’occasione per dimostrarlo. Come 27 anni or sono, quando i Pasdaran del nuovo Iran khomeinista sequestrarono 63 cittadini americani a Teheran per liberali dopo 444 giorni soltanto nell’ora dell’insediamento di Reagan, così oggi i marinai inglesi imprigionati pretestuosamente da Ahmadinejad, accusato di essere uno degli assalitori dell’ambasciata nel 1979, non sono una sfida delle "canaglie" a un Blair che non conta più né a un’Europa che non conta mai. Sono uno schiaffo diretto al ‟Grande Satana”, all’America, all’ammiraglia della flotta occidentale per andare a vedere il bluff di chi pretendeva di ‟cambiare i regimi canaglia” a piacere.
Ci aveva pensato sopra a lungo, in silenzio, la Casa Bianca, prima di reagire e di raccogliere la sfida lanciata dagli spettri del 1979 tornati a cavalcare nella persona dello studente Mahmud Ahmadinejad che secondo molti degli ostaggi guidò una parte dei carcerieri degli americani e ora guida la nazione sotto il protettorato degli ayatollah. Bush sapeva che se fosse uscito in prima persona per condannare quel sequestro di incolpevoli e chiederne la liberazione, se ne sarebbe assunto la responsabilità morale e forse militare, perché non è della ormai svuotata ‟British Navy” che l’Iran ha paura, ma della formidabile flotta di portaerei nucleari che Washington tiene nel Golfo Persico, la ‟Stennis” e la ‟Eisenhower”. Poi, sabato scorso, la decisione di entrare in campo: "La cattura di quegli innocenti marinai è un atto non scusabile". Teheran "deve liberarli", "senza condizioni o quid pro quo". Deve.
Dunque, il ‟Grande Satana” e la ‟Grande Canaglia” tornano a guardarsi negli occhi attraverso il mondo, per vedere chi per primo abbasserà la sguardo. E i fili sospesi al vento di una tragica storia mai chiusa, che cominciò a essere tessuta con la rimozione illegale e clandestina da parte della Cia del premier Mohammed Mossaddeq democraticamente eletto nel 1951 (‟Operazione Ajax”), si ricompongono e tornano a intrecciarsi in un gomitolo che le generazioni si passano senza riuscire a dipanarlo. Questa edizione 2007 di quel calvario del 1979 è il postumo di un male mai curato, piuttosto che il sintomo di un male nuovo.
Ventisette anni or sono, quando la notizia dell’attacco all’ambasciata americana, preferita in extremis a quella sovietica che altri ‟pasdaran” avrebbero preferito, quei 63 fra diplomatici, impiegati e marines di guardia, poi ridotti a 52, raggiunse l’America, la sorpresa fu pari all’indignazione.
Uno shock su un corpo indebolito da altri shock. Il Presidente Carter, imprigionato dalla impopolarità crescente, dal malessere economico, dalle file per la benzina rincarata, fece della prigionia di quei suoi concittadini l’ossessione che consumò il resto della sua presidenza. Televisioni e giornali afferrarono l’osso, implacabilmente segnalando ogni sera, e ogni mattina, il trascorrere dei giorni di prigionia, mentre alla Casa Bianca, al Dipartimento di Stato, alla Cia, al Pentagono, si bruciava ‟l’olio di mezzanotte”, si faceva l’alba contorcendosi fra ipotesi di operazioni militari e tentativi di mediazione diplomatica.
La crisi degli ostaggi in Iran divorò Carter, il governo, l’America, tra accuse di impotenza, di debolezza, di pusillanimità pacifista, divenendo per quella Casa Bianca ciò che il Vietnam era stato per il predecessore democratico di Carter, Lyndon Johnson dieci anni prima, come più tardi ammetterà il consigliere strategico principale, Zbigniew Brzezinski. I telegiornali raccontavano di atrocità e di maltrattamenti immaginari e veri, riportavano i racconti (veri) di finte fucilazioni, alle quali gli ostaggi erano sottoposti per schiantarli moralmente e psicologicamente, rilanciavano i volti sinistri e urlanti delle folle attorno all’ambasciata, le storie di prigionieri in celle d’isolamento nutriti a noccioline, come racconterà poi uno dei marines, ricordando che "il mio solo passatempo era dormire 20 ore al giorno, in uno stato di catalessi, e guardare le formiche e una lucertola contendersi la nocciolina che gli buttavo".
E quando la disperata, arzigogolata e sfortunatissima operazione ‟Artiglio d’Aquila” si schiantò nel grande deserto di sale iraniano lasciando otto militari uccisi, tre elicotteri danneggiati e la carcassa fumante di un C-130 Hercules abbattuto in una collisione con un elicottero - una disfatta avvenuta senza che gli iraniani avessero mai sparato un sol colpo - il prestigio dell’America sprofondò, esaltando quello dell’Ayatollah Khomeini, vincitore del demonio grazie, disse la propaganda dei fanatici, al divino intervento.
I 52 ostaggi rimasti in quell’ambasciata furono liberati, e consegnati agli Algerini il 20 gennaio del 1981, pochi minuti dopo il discorso inaugurale del nuovo presidente eletto, Ronald Reagan. Un segno di come il regime iraniano, che aveva ottenuto da Washington nel protocollo firmato ad Algeri l’impegno a "non interferire mai più negli affari interni della Repubblica Islamica", si considerasse vincitore, ora che Carter era stato allontanato e i suoi tentativi erano falliti. Fu un regalo, un omaggio, un segnale di possibile cooperazione sotto il tavolo, che i reaganiani avevano preparato con cura e che avrebbero poi sfruttato nel traffico illegale di armi e di finanziamenti clandestini, via Iran, per puntellare la guerriglia anticomunista in Nicaragua. Nel grande e sordido gioco, sembrava la fine, ed era soltanto l’intervallo.
Il filo strappato con la rimozione di Mossadeq nel 1953, colpevole di avere irritato i signori anglo americani del petrolio, e ripreso in mano da Khomeini, non era mai stati ricucito, si è trasformato in miccia accesa dalla retorica antisemita di Ahmadinejad, dal suo programma nucleare e dalla cieca strategia di confronto e di "democrazia da esportare" con le baionette abbracciata da Bush nel panico del dopo 11 settembre. Che cosa vogliano ora le marionette e i burattinai iraniani in cambio di questi 15 sembra ovvio: umiliare gli Usa, attraverso gli inglesi, e spostare il discorso, e l’attenzione, dal duello con l’Onu e con gli Stati Uniti sulle sanzioni e sul nucleare.
Una ‟distrazione”, una manovra evasiva che forse non dispiace troppo neppure a Bush, assediato dalla impopolarità e tormentato da una guerra in Iraq che ha consumato più vite irachene e americane in marzo di quante ne avesse bruciate in febbraio, smentendo le bugie ottimiste sui ‟primi successi” della escalation militare. Ma che cosa possa fare in pratica, senza lanciare un bombardamento di rappresaglia insieme con qualche ‟volonteroso” britannico o israeliano, per ora, non si vede. Dunque anche Bush si agita, chiede, condanna, avverte, nell’incubo di non diventare nè suo padre nè Reagan, ma un nuovo Carter 27 anni dopo.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …