Michele Serra: Il provinciale di Giorgio Bocca. Un partigiano brusco inviato nel mondo

03 Aprile 2007
Quando uscì Il provinciale, nel 1991, ero troppo giovane per capirlo. Bocca non è un giornalista ideologico, è un giornalista biologico, legge gli uomini e gli eventi a partire dalle pulsioni del corpo e della psiche, la fame, l’ambizione, l’invidia, l’eros, il piacere dei soldi, il dispiacere della penuria. Divorai il primo capitolo, quello sulla guerra partigiana, poi abbandonai il libro: il bandolo del racconto, così implacabilmente scevro da ogni complicità politica, non corrispondeva al mio fabbisogno, allora inesauribile, di uno sguardo ideologico sul mondo. Pensai che Bocca era bravo. Ma cinico.
Ripreso in mano oggi, Il provinciale mi ha folgorato. Forse perché ho vissuto, letto e scritto abbastanza per capire che l’anti-idealismo di Bocca, quel suo scrivere quasi spietato, quasi urtante, non contiene soltanto il sale amaro della disillusione (ingrediente comunque pregevole, se si vuole che il proprio bilancio sia sincero).
Contiene - ed è molto di più - la capacità di guardare la vicenda umana, i rapporti tra individui e ceti sociali, cercandone la sostanza, il nocciolo, il motore profondo: la struttura, dicono (o meglio dicevano) i marxisti, badando a non lasciarsi troppo confondere dalle sovrastrutture. E così mi sono ritrovato a scoprire che quanto, vent’anni fa, mi era parso quasi ‟impolitico”, apparteneva a uno dei migliori libri politici mai scritti sull’Italia degli ultimi sessant’anni. Nonché, se posso dirlo, uno dei migliori libri tout court su questo Paese e i suoi abitanti.
Il provinciale è l’autobiografia di un giornalista. Non un saggio, dunque. Piuttosto un romanzo sociale, però fortissimamente ancorato all’esperienza dell’autore, alle sue svolte professionali e sentimentali, ai suoi viaggi, ai suoi malumori (impossibile imbattersi in Bocca, sui giornali o di persona, senza fare i conti con i suoi malumori: il numero di quelli che ‟gli rompono i coglioni” è sterminato, e oltre a dirlo lo scrive pure), al mutare progressivo delle condizioni sociali sue e dei suoi diversi habitat, la Cuneo dell’infanzia e del fascismo, le Alpi e le Langhe della guerra partigiana, la Torino della ricostruzione, la Milano del boom e poi del Sessantotto, del terrorismo, del disfarsi progressivo di ogni fragile integrità passata, di ogni presunta certezza acquisita.
E poi l’infinità degli incontri, privilegio dei grandi giornalisti: Valletta, Montale, Enrico Mattei, Paolo VI, Togliatti, Fallaci, Buzzati, Cederna, Italo Pietra, Capanna, Agnelli, Pirelli. politici e giornalisti, papi e capi di Stato, tutti descritti (al pari dell’ultimo protagonista della cronaca nera) a partire da un tratto del corpo, un’espressione del viso, una distonia del carattere, in quell’interminabile corpo-a-corpo tra animali-uomini che è il filo conduttore del Provinciale.
L’elemento vincente e avvincente del racconto, quello che lo rende profondamente ‟morale” e gli conferisce, cosa non trascurabile, uno spessore letterario molto inconsueto nei libri dei giornalisti, è la capacità di Bocca di calare se stesso, la propria storia umana e professionale, nel grande e vitale caos italiano. L’ego come cavia della storia, come parte compromessa e mai come osservatore distaccato o peggio come moralista a latere.
Niente a che vedere con l’idea algida e presuntuosa del giornalista come maestrino neutrale, magari dispensatore di buoni consigli. Bocca utilizza a piene mani, oltre ai propri successi e alle proprie intuizioni vincenti, anche i propri errori di valutazione, le proprie debolezze, perfino le proprie (tante) idiosincrasie personali, si racconta sempre calato appieno nel groviglio sociale e politico dell’Italia energica e ambiziosa uscita dalla guerra, sorride del proprio breve periodo salottiero, dei propri amorazzi da inviato, del proprio cercare di capire, qualche volta cercare di adeguarsi, e lottare per emergere, e sconfiggere i nemici personali.
Dice del suo rapporto con il benessere e con il denaro, con le donne e il cibo (memorabile il racconto del suo rapporto rapace e allegro con una delle migliori salumerie di Milano), non ne delega la descrizione solo al comodo alibi degli ‟altri”, mentre lo leggi lo vedi, lo vedi che annaspa intellettualmente quando il subbuglio giovanile del Sessantotto arriva a scuotere e urtare la sua visione rigorosa e piemontese dei diritti e dei doveri, lo vedi mentre in Vietnam si fa fregare da un autista locale che gli promette di portarlo dai Vietcong e invece va a trovare suo cugino, ne percepisci l’ira e il rancore quando qualcuno gli mette il bastone tra le ruote della carriera, alla quale, da buon provinciale, è affezionato come a se stesso.
Sì, la lettura ‟biologica” del vivere italiano ha, nel Provinciale, questo sommo pregio, che l’autore non si chiama mai fuori. Non cerca mai l’applauso (facile) che spetta al virtuoso che non si è lasciato contaminare. Perfino il suo ben noto antifascismo, che fino a oggi lo coinvolge in drastiche, durissime polemiche, viene qui spiegato, con un’onestà intellettuale difficile da emulare, come la difesa palpitante, emozionante della giovinezza e dei suoi miti fondanti, dell’integrità spontanea, innocente, irriducibile di chi prende la vita di petto, la abbraccia, la possiede.
In pagine formidabili, per me ancora più toccanti perché conosco quelle montagne e proprio quelle, Bocca racconta la guerra partigiana nel Cuneese soprattutto come una immersione iniziatica nella natura madre, le lunghe camminate nella neve, una fioritura sfolgorante di ranuncoli in alta quota, il freddo e il cielo, il corpo che elide la fatica grazie all’entusiasmo panico. E la morte, che Bocca si carica in spalle come uno zaino terribile, come parte inescludibile della guerra e della vita, descrivendo l’esecuzione di suo pugno di un tedesco, pudore e pietà, crudezza del dovere, memoria durissima. Mai chiamarsi fuori.
Si coglie, da qui, che l’intransigenza di Bocca nei confronti della ri-discussione in atto, la sua liquidazione spiccia del revisionismo, non è banalmente politica. E’ esistenziale, è fondante, è la difesa di un impulso naturale a battersi per il giusto, e avere avuto la fortuna di farlo dentro la chiostra materna delle montagne di casa, nella heimat già percorsa con gli sci di legno dei bambini e poi con il fucile che folgora l’oppressore, nella neve e nel fuoco. Che cosa volete che conti, per uno così, il ricalcolo tignoso e strumentale dei morti e dei torti?
Una pipì nella neve, ‟guardando il foro giallino nel bianco immacolato”, chiude il libro, riallacciando il bandolo della vita alle sue prime esperienze, come si fa da vecchi. Un montanaro che piscia nella neve. Punto.
Bocca si incazzerà moltissimo, ma è un finale da lacrime vere, di una commozione pulita, essenziale, ‟piemontese”, che storna dal peso della memoria ogni altra luce e ogni altra ombra, e restituisce al corpo, il corpo affaticato di chi ha molto vissuto, il suo essere l’unico vero tempio della memoria, dell’esperienza e dunque della vita. Mio padre era del ‘20 come Bocca, ha fatto la guerra come lui però in un campo di prigionia in Africa, senza neanche il conforto di riconoscere una ragione e una familiarità in quanto gli accadeva.
Mi sono accorto, leggendo Il provinciale, di quanto poco noi figli abbiamo capito della ruvidezza e del pudore di questi padri di guerra, poco sentimentali, severi, estranei alle nostre fortunate mattane da figli del boom. Capaci però di ricostruire, anche per noi, forse soprattutto per noi, una vita benestante e pacifica, una parvenza (almeno quella) di democrazia e di vita civile. Partiti sulla Topolino e arrivati fin qui. E così poco ingombranti, in fondo, e forse così spiritosi da riassumere il tutto in una pisciata solitaria sulla neve. ‟Che resta da capire?” è l’ultima riga del libro. Leggetelo, se volete capire perché.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …