Gian Antonio Stella: Il triste futuro di Venezia, una Disneyland dell’arte senza neanche un bambino

10 Aprile 2007
‟Pochi putei, campi sensa un sogo / ‘na cità che xe ‘na casa de riposo”, cantavano i Pitura Freska in ‟Venessia in afito” già nel ‘93. E così è Venezia: pochi bambini, campi senza un gioco, una città che è sempre più un ospizio. Anzi, negli ultimi anni la situazione si è fatta più pesante. Basti dire che dopodomani, salvo miracoli, tra le proteste dei genitori che contestano il trasferimento dei figli (‟chi governa non deve ignorare cosa significhi per bambini tra i 3 e i 5 anni, al loro primo distacco dall’ambiente familiare, perdere all’improvviso i propri punti di riferimento”) chiuderà l’ultima ‟materna” nel sestiere di San Marco. Eppure, per ricordare la città serenissima affollata di bimbi non occorre tornare al Settecento e ai giochi dipinti da Gabriel Bella oppure alle stampe che raffiguravano ragazzini entusiasti intorno al ‟Mondo Nuovo”, quella specie di antenato della televisione che girava per i campielli e veniva descritto da Carlo Goldoni nell’omonima commedia come ‟una industriosa macchinetta / che mostra all’occhio maraviglie tante / ed in virtù degli ottici cristalli / anche le mosche fa parer cavalli”. Certo, allora Venezia era un formicolio di bambini. Che si affollavano festanti anche nelle immagini più recenti intorno alle mamme ‟impiraresse” che si consumavano gli occhi per pochi spiccioli infilando per ore collane di perline. Senza andare così indietro nel tempo, la città aveva ancora nel ‘66, quando fu sconvolta dall’alluvione, decine di migliaia di bambini. Via via ridotti, dall’esodo in terraferma, a poche migliaia. Destinate a diventare poche centinaia. Basti dire che negli ultimi quarant’anni gli abitanti (che erano arrivati a 175.000 nel censimento del 1951) sono scesi da 121 a circa 62 mila, dei quali tremila stranieri. Un’emorragia senza fine. Accompagnata da una progressiva chiusura delle botteghe di un tempo. Prendete l’elenco telefonico: restano nella vasta area di San Marco tre negozi di alimentari (che sopravvivono grazie ai panini per i turisti di passaggio), una macelleria, un panificio. Fine. E un abitante della Salute, che deve farsi delle camminate per andare a prendere il vaporetto perché non è mai stato fatto il pontile, è costretto per comprare una rosetta a lunghe passeggiate. Basta un dolore all’anca o qualche acciacco della vecchiaia e vivere in certe calli diventa impossibile. Risultato: un circolo vizioso. Dove i clienti se ne vanno perché è troppo faticoso andare a fare la spesa e i negozi, col calare dei clienti, chiudono e lasciano spazio a botteghe di maschere, botteghe di maschere, botteghe di maschere. Col rischio che, anno dopo anno, Venezia diventi ciò che qualcuno già paventa: una specie di Disneyland dell’arte vuota di veneziani e quotidianamente stuprata da torme di turisti. Certo, l’asilo in calle dele Muneghe ha ormai la metà dei bambini che aveva quando a scuola andavano le loro mamme. È probabile che negli anni calino ancora. Ed è sicuro che la proprietà, un ente morale guidato dal parroco della chiesa di Santo Stefano, don Mario Senigaglia, abbia buone ragioni per ristrutturare e allargare la casa-albergo sistemata qualche anno fa coi finanziamenti pubblici per il Giubileo. Insomma: tener lì l’asilo invece che spostarlo da un’altra parte può essere, per usar una parola alla moda, ‟diseconomico”. Ma a cosa servono uno Stato, una Regione, un Comune se non a farsi carico talvolta, per specifiche ragioni di principio, di ciò che è ‟diseconomico”? Che se ne fa Venezia del 231° albergo (più 706 appartamenti trasformati in alloggi per turisti e bed&breakfast) se perde il suo ultimo asilo a San Marco?

Gian Antonio Stella

Gian Antonio Stella è inviato ed editorialista del “Corriere della Sera”. Tra i suoi libri Schei, L’Orda, Negri, froci, giudei & co. e i romanzi Il Maestro magro, La bambina, …

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