Michele Serra: Inter. In festa come bambini

26 Aprile 2007
La parola "scudetto" è una delle poche rimaste intatte, nel calcio mutageno dei nostri giorni. Risale allo sport pre-televisivo e non ancora baciato e contaminato dagli sponsor, è una parola poco solenne, domestica, da bar e da banco di scuola, da spogliatoio, da album di figurine. Un piccolo scudo di stoffa tricolore da cucire sulle maglie. Un tempo spiccava isolato in mezzo ai colori ammalianti della squadra amata. Oggi bisogna cercarlo meglio nella tempesta di patacche e marchi e logo e graffiti che quasi cancellano i colori sociali. I più giovani non possono (ancora) capire la totale meraviglia che prende noi ex-ragazzi quando scopriamo che qualcosa, almeno qualcosa, è rimasto "come prima". Cioè come quando eravamo bambini. È un cortocircuito sentimentale, questo, difficile da cogliere (e magari da perdonare) per chi non è coinvolto nelle faccende del tifo. Significa sentire, una domenica di sole, un clacson che suona giù in strada, sotto le finestre, per andare a festeggiare lo scudetto, e percepirlo (con un tuffo al cuore) come lo stesso clacson udito quarant’anni prima, sotto un’altra finestra, quando c’era il padre a regolare la sola manopola importante, quella della radio e di Tutto il calcio minuto per minuto, e la televisione era ancora spenta e muta. (La televisione era una dea serale, mattino e pomeriggio erano consacrati alla voce severa e autorevole della radio). Significa sapere benissimo di quante porcherie, ipocrisie, interessi loschi, violenze, manfrine politiche è macchiato il calcio, eppure sentirsi stupidamente, irresistibilmente felici come quando si andava a San Siro sul tram numero 15, e si comperavano il mottarello o le caldarroste (a seconda della stagione) in piazzale Axum, nella Milano in bianco e nero di quasi mezzo secolo fa. Quasi incredibile come tutto sia cambiato, da Sarti-Burgnich-Facchetti a ora, da Moratti a Moratti figlio, da quella Milano di ricchi e di operai a questa qui, di ricchi e di non si sa più cosa. Ma è proprio per questo, per l’irrimediabile distanza che in un attimo si colma, per il rosario degli anni che in un istante di attorciglia su se stesso, per la consolazione di vedere rinascere se stessi e la propria memoria, che un sacco di gente anche per bene, anche intelligente, è così devota al calcio. Se pensate a tutto quello che gli hanno fatto, al calcio, e a tutto quello che si è fatto da solo, è quasi miracoloso ritrovarlo capace (oggi per gli interisti, ieri e domani per altre tribù) di rinnovare la sua vecchia felicità. Innocente, stupida, indecente felicità. Felicità è una parola molto impudica. Ma a un bambino, quale sono oggi, quali siamo oggi tutti noi nerazzurri, la si deve perdonare. Specie se quel bambino è nerazzurro, e ha conosciuto il lungo purgatorio degli ultimi anni, quando per darsi un tono gli interisti si sono cuciti addosso una specie di malinconico snobismo, come se fosse più elegante perdere che vincere. Era una posa, certo che lo era, anche se le faccende di Calciopoli ci hanno aiutato parecchio a indossare con più convinzione e dignità l’abito del perdente. Per questo qualcuno di noi non fu d’accordo quando Massimo Moratti non seppe e non volle rifiutare lo scudetto numero 14, quello vinto a tavolino per indegnità degli avversari. Per altro, oggi che il quindicesimo titolo esce dal campo, e da una squadra formidabile, capace di diciassette vittorie consecutive, capace di vincere matematicamente il titolo con cinque giornate di anticipo, anche il precedente si rivaluta un poco. Moratti lo volle per risarcimento di una fatica (anche economica) che risultò inutile, per lunghi anni, anche per ragioni extra-sportive. Allora brindò in solitudine, in casa sua, oggi lo champagne gli arriva addosso da mezza Milano. Quello fu lo scudetto di Moratti, questo è lo scudetto dell’Inter. Non è una buona abitudine, d’altra parte, quella tutta italiana di confondere i torti e le colpe in una indefinita melma che affoga nella stessa maniera i colpevoli e gli incolpevoli. Se la Juventus non ha potuto contendere lo scudetto all’Inter, non è certo colpa dell’Inter, come pare intendano, alla fine, i polemisti più disinvolti e più smemorati. La Juve è stata fuori per colpe (accertate) dei suoi dirigenti, e se vogliamo è tipicamente da Inter non averla potuta affrontare proprio nell’anno in cui era in grado di mettere sotto qualunque avversario. Una piccola sfortuna alla quale l’Inter potrà rimediare già dall’anno prossimo, con il campionato a ranghi completi: in pratica - tipica fatica da Inter, esagerata e fuori dalla norma - l’Inter deve vincere tre scudetti consecutivi per rimettere a posto i suoi conti con la storia del calcio~ E comunque più della Juve, se non è sgarbato dirlo, se non è retorico dirlo, quest’anno agli interisti è mancato Giacinto Facchetti.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …