Umberto Galimberti: Nell’inconscio e nella Rete alla ricerca della realtà perduta

06 Maggio 2007
E allora non il corpo, ma l’anima; non le cose del mondo, ma i numeri e le idee, che abitano quell’oltre-mondo che Platone chiamava ‟iperuranio” (Fedone). Questo processo di astrazione, e quindi di de-materializzazione, è divenuto il tratto fondamentale della cultura occidentale, se è vero che lo stesso Cartesio, nell’inaugurare la scienza moderna, ci dice che ‟noi conosciamo i corpi non per il fatto che li vediamo o li tocchiamo, ma solamente per il fatto che li concepiamo per mezzo del pensiero” (Meditazioni metafisiche).
A partire da Cartesio ci siamo gradualmente, ma ineluttabilmente avviati verso la de-materializzazione della nostra realtà nel suo complesso con la progressiva sostituzione degli oggetti materiali con le immagini virtuali. Le cose vengono toccate sempre meno con mano e sempre più con quegli indicatori che le significano, senza più mettere in gioco il loro spessore corporeo.
Oggi la realtà virtuale ha già invaso la nostra vita quotidiana e, dall’architettura alla biologia molecolare, dalla medicina avanzata alla didattica futuribile, fino alla guerra simulata che poi, come la Guerra del Golfo, finisce con aver luogo, anche se Jean Baudrillard sostiene il contrario (La guerre du Golfe n’a pas eu lieu, 1991), la realtà virtuale, dicevamo, ci proietta di volta in volta dentro un video, dove la nostra azione compare saio con la vicaria complicità di quel nostro sosia che è l’alter ego digitale, il quale è in grado di farci vivere addirittura una ‟seconda vita”, se quella che stiamo vivendo nella realtà ci pare insoddisfacente.
La diffusione sempre più generalizzata del tele-lavoro inquieta gli uomini e al tempo stesso li affascina. Da un lato c’è la paura per l’invadenza sempre più massiccia della virtualità, dall’altro vien da pensare che gli entusiasti che celebrano la virtualità abbiano una terribile paura della realtà. Anche se resta da chiedersi, come si chiede Tomàs Maldonado in Reale e virtuale (Feltrinelli, 1992) ‟se la produzione computazionale di immagini ad altissima fedeltà, ossia le pratiche e i prodotti dell’attività eidomatica, siano veramente in grado di arricchire la nostra esperienza, anzi di fornirci più esperienza di quella che noi avremmo potuto raccogliere, senza la mediazione dell’immaginale, in un rapporto, diciamo, empirico con la realtà”.
Riprodurre virtualmente la realtà consente di vedere in anticipo le soluzioni possibili, oppure, come nella biologia molecolare, di osservare realtà non altrimenti osservabili. Ma la serie di invenzioni, soluzioni e osservazioni rese possibili dal virtuale sono quelle previste dal codice di costruzione, per cui il virtuale crea in incremento di possibilità conoscitive per l’inventore del codice e non per il fruitore, che si sente libero solo perché ignora di operare in un sistema codificato.
Ma, al di là di questo condizionamento, che pure è molto importante se è vero che si va ipotizzando anche la possibilità di un sesso virtuale in uno spazio virtuale, resta da chiedersi che tipo di uomo può nascere quando verrà meno quell’antica esperienza su cui l’uomo storico è cresciuto: l’esperienza del mondo dei corpi con la loro efficacia visiva, tattile, auditiva, olfattiva. Certamente un uomo radicalmente diverso che più non conosce, se non in immagine, le dicotonie superficie-profondità, duro-molle, fluido-vischioso, compatto-spugnoso. Già il mondo dei materiali industriali simula nell’artificio questi aspetti della corporeità, ma il processo di de-materializzazione lo amplifica, se è vero che il tempo e lo spazio, costruiti nell’immagine del monitor, non sono più quegli a priori che Kant indicava come condizioni per la costruzione dell’esperienza, ma diventano essi stessi degli oggetti costruiti dalla fluida consistenza della materialità luminosa, dove la luce appare come materia, e l’intermittenza generatrice di luce come espressione del fattore tempo.
Persino il nostro inconscio e la modalità del suo procedere è interpretato dall’immagine virtuale che lo descrive e lo rappresenta letteralmente nella vischiosità della figura che rifluisce e si perde nell’altra, nella retroazione dell’effetto sulla causa, nell’ingigantimento della parte sul tutto, nella condensazione delle immagini e nel loro spostamento in nessun tempo e in nessun luogo. Il virtuale, liberandoci dal limite costituito dal punto di vista a cui il nostro corpo ci costringe, fa del nostro occhio il punto di convergenza di tutte le linee del mondo, come dall’alba dei tempi, miti e religioni immaginavano l’occhio di Dio. E allora se proprio qui, nelle possibilità dischiuse dal virtuale, si fosse rifugiato quel bisogno di trascendenza dal mondo, che tante religioni e tante filosofie hanno anticipato, nel tentativo, mai dismesso dall’uomo, di rubare a Dio il segreto della creazione?

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …