Vittorio Zucconi : Lindbergh, l’americano che scoprì l’Europa

20 Maggio 2007
I duecento cavalli galoppavano generosamente per scollare le ruote dal fango e l’uomo che li guidava chiese a loro un altro sforzo, vita o morte. Go, Go, alé, forza, vai. Le ruote si staccarono, ma dopo pochi metri ripiombarono nell’erba fradicia.
‟Come on, come on, get up”, dai, dai, su, su, li incitava sottovoce l’uomo alle redini e i cavalli risposero ancora, le pulsazioni dei loro cuori salirono a 1.475 al minuto, il massimo di cui fossero capaci in quell’aria grondante di acqua. Le ruote si alzarono una seconda volta, soltanto per sprofondare di nuovo nel fango. Cinquecento metri, quattrocentocinquanta, quattrocento, mancavano al fossato dove lui e i suoi cavalli si sarebbero disintegrati in un lampo, trecentocinquanta metri soltanto, quando davanti ai loro musi si stagliò una sagoma terrificante. Un trattore.
Per l’ultima volta, l’uomo chiese pietà a quel cielo che aveva osato sfidare, a quella terra che non lo voleva mollare, e con un urlo finale i cavalli schiodarono le ruote dal fango, il carretto alato si alzò nell’aria, sfiorando il trattore per due metri. Erano le sette e cinquantadue del 20 maggio di ottant’anni or sono, il 1927, su un prato dell’isola di Long Island chiamato Roosevelt Field, dove oggi uno shopping center offre le solite cianfrusaglie fabbricate in Cina e i bambini non alzano neppure più il naso a guardare i jumbo partiti dal Kennedy verso quell’Europa che raggiungeranno in sette ore e che l’uomo del carretto alato avrebbe impiegato trentatré ore e mezza per toccare. Facendo di lui, di Charles Augustus Lindbergh, il Cristoforo Colombo alla rovescia, il navigatore che avrebbe aperto agli americani le rotte aeree dell’Europa, come il genovese aveva aperto le rotte navali per l’America agli europei. Lindbergh fu la risposta del Nuovo mondo al Vecchio continente. Fu l’americano che scoprì l’Europa.
Non che avesse cominciato benissimo la propria vita di pioniere, Lindy, come lo chiamavano in famiglia, o "l’Aquila solitaria" come i titolisti dei giornali l’avrebbero esaltato. La sua prima impresa, nel 1918 ad appena sedici anni nel Minnesota, era stata un allevamento industriale di galline per sfamare le città pronte alla crescita vertiginosa di ogni dopoguerra, arrivando ad averne seimila in una enorme stia riscaldata da stufe a temperatura costante contro gli inverni di quelle regioni, le più fredde d’America. Un’avventura che finì quando un ritorno di fiamma nelle stufe consumò in pochi minuti l’intero impianto. La vita della futura "Aquila solitaria" era cominciata con il più grande arrosto di polli nella storia americana. Uno superstizioso ci avrebbe letto un presagio infausto.
E Lindbergh non era neppure il suo vero nome. Il nonno paterno si chiamava Mansson, Ola Mansson, quando era stato costretto a scappare nel 1859 dal villaggio natale di Gardlosa, in Svezia, dove la sua carriera di deputato al parlamento era crollata fra accuse di truffa e appropriazioni indebite. Allo sbarco in Québec e sulla via di quel Midwest americano fra Illinois, Missouri e Minnesota dove tanti emigrati dalla Scandinavia si sarebbero finalmente sistemati si era autoribattezzato Charles Lindbergh e si era adattato a una vita di commerci, di fatica e di qualche scambio di fucilate con le tribù locali, i Chippewa. Dunque nel breve spazio di una vita, in sessant’anni, una famiglia di emigrati svedesi in fuga e con falsa identità, passarono dalle guerre indiane alla prima trasvolata atlantica non-stop, una misura temporale che dà il senso della vertiginosa accelerazione della storia americana.
Ma non era l’accelerazione della storia quella che preoccupava il nipote del deputato truffatore quando il suo monoplano e monomotore, battezzato "Spirit of St. Louis" in onore del finanziatore che appunto a St. Louis gli aveva anticipato 10.500 dollari per costruirlo, raggiunse le coste del New England e calò su di lui il primo sipario di quella che sarebbe stata per trentatré ore la sua nemica più insidiosa: la nebbia. Con 1.703 litri di benzina disseminati ovunque per coprire i 5.810 chilometri fra le coste di New York e l’aeroporto Le Bourget di Parigi, il motore del suo aereo, un Wright di serie, e i suoi nove cilindri non potevano neppure sognare di alzarsi sopra le nubi, le foschie, il cattivo tempo, il ghiaccio che gli aerei di linea oggi scavalcano senza fatica. Chiuso nel pozzetto di ottanta centimetri di diametro per un metro e trenta di altezza, che stringeva la sua figura allampanata nella atroce scomodità che poi milioni di passeggeri paganti in classe economica avrebbero sperimentato lungo la stessa rotta, "Lindy" non poteva allungare le gambe né guardare avanti, se non attraverso un piccolo periscopio retrattile che uno dei costruttori dell’aereo con esperienza di sommergibilista gli aveva installato.
Non che ci fosse nulla da vedere, lungo quella costa nebbiosa del Nord Atlantico e poi sul lastrone grigio dell’oceano, o che lui desiderasse vedere, sapendo bene che tra gli scogli del New England, poi del Canada, della Nova Scotia, l’ultima terra prima di virare a est e cominciare la traversata, c’erano sparpagliate le carcasse dei ventisette aerei che prima di lui avevano tentato l’impresa. E che si erano puntualmente schiantati, inseguendo il premio di venticinquemila dollari - il costo di due o tre buone abitazioni - messi in palio dall’albergatore di New York Orteig per il primo trasvolatore senza scalo. Dopo il naufragio più recente, quello di tre argonauti su un trimotore, Lindbergh, che aveva conosciuto la sua razione di disastri come pilota di aerei postali, aveva preteso che il suo "Spirit of St. Louis" avesse un motore solo. ‟Ci sono semplicemente meno cose che si possono guastare”, aveva spiegato al fabbricante, la Ryan Aviazione, e al progettista. ‟I nove cilindri del mio motore Wright devono produrre 14 milioni e 500mila esplosioni interne per funzionare da New York a Parigi. Moltiplicate questo numero per tre e capirete perché un motore unico è più sicuro”.
La sua velocità di crociera, mentre virò verso un’alba che era ancora lontana venti ore di solitudine e di gelo, era quella di una buona automobile in un’autostrada senza autovelox, 170 chilometri all’ora a 1.300 giri, guidato dalla bussola e dalle stelle, quando riusciva a vederle dai finestrini laterali. Non aveva radio, che avrebbe appesantito il trabiccolo di tubi di acciaio al molibdeno e di tela e non sarebbe servita a nulla, neppure a comunicare con le navi, poche e troppo distanti. Non aveva autopilota, né altri comandi che non fossero la barra in mezzo alle ginocchia e la pedaliera, che doveva azionare costantemente per tenere in linea di volo un aereo instabile e riottoso, cosa che gli avrebbe salvato la vita, costringendolo a smanettare e a muovere i pedali e impedendogli di cedere al suo secondo, e altrettanto micidiale avversario, il sonno.
Ma agli avversari, meccanici, atmosferici e soprattutto umani, il Cristoforo Colombo alla rovescia avrebbe fatto presto il callo e l’abitudine. La stessa intensità, ostinazione, concentrazione che aveva dedicato al sogno della vita - quello di volare, concepito quando un ‟pazzo su una macchina volante” aveva sfiorato il tetto della sua fattoria di famiglia nel 1915 - avrebbe poi dimostrato nella capacità di rendersi indigesto e di antagonizzare quella stessa opinione pubblica che lo aveva beatificato dopo il volo e poi abbracciato durante la tragedia della sua vita, il rapimento e l’assassinio del suo angelico bambino di un anno e otto mesi. Come l’aeroplanino, oggi sospeso a stagionare come un prosciutto sotto le volte del Museo dell’aviazione di Washington, anche il suo pilota era un solitario, uno scontroso, un riottoso. Le folle accorse a Le Bourget per accoglierlo, decretandogli un trionfo che soltanto la Francia dei Blériot, dei Saint-Exupéry, fresca dei duelli aerei sui cieli della Marna, poteva regalargli, lo spaventavano. Ogni città americana gli dedicò le parate di coriandoli gettati dalle finestre, ma lui aveva sempre il broncio. Ogni visionario e investitore lo rincorreva per associare il suo nome a un nuovo aereo, a una nuova compagnia, come fece il creatore della Pan Am, Tripp. E non ci fu un occhio asciutto, nell’America del 1932, quando Betty, la governante dei Lindbergh, andò nella stanza di Charles Augustus junior per accendergli la stufetta elettrica nella notte fredda del New Jersey e scoprì che la finestra era aperta. E il lettino dove avrebbe dovuto dormire il bambino era vuoto.
Mai prima, e mai dopo, tanta commozione e tanta rabbia avrebbero accompagnato un caso di cronaca nera, la ricerca dell’"Aquilotto", come fu subito chiamato il bambino. Una nazione impazzita, fulminata, in animazione sospesa fino al ritrovamento del corpo nascosto sotto il terriccio e le foglie di un bosco a pochi metri dalla casa e fino al processo contro l’"immigrato illegale" che fu arrestato e condannato per il delitto, il falegname tedesco Bruno Hauptmann, che andò alla sedia elettrica protestando la sua innocenza e rifiutando addirittura l’offerta formale di commutazione della pena in ergastolo se avesse confessato. Eppure fu proprio nel momento di convergenza fra l’ammirazione e la commozione, fra il trionfo dell’esploratore e la disperazione dell’uomo, che qualcosa si spezzò per sempre, in lui e nella nazione che lo aveva santificato.
Se ne andò a vivere in Inghilterra, con la moglie Anne già in attesa di un altro figlio ma che i Lindbergh non vollero far nascere in America. E anche la moglie, come avrebbe scoperto per caso la figlia rovistando tra vecchie carte della madre, lo avrebbe tradito con un amante segreto, come lui avrebbe voluto tradire l’America. In quell’Europa che lo aveva osannato all’atterraggio, fu sedotto dai miraggi di ordine, di autorità, di efficienza, di progresso che i nazisti proiettavano. Visitava ammirato e ossequiato gli stabilimenti degli Heinkel e dei Messerschmitt, i laboratori della Luftwaffe, le regge di Goering, aviatore come lui e asso della Grande guerra. Tentò invano di incontrare Mussolini, visitando la Roma Imperiale. E si scagliò contro Roosevelt quando capì che il presidente stava spingendo verso l’entrata in guerra, mentre giurava di volerne restar fuori. Con la maschera dell’isolazionismo, della dottrina dell’"America First", l’America prima di ogni altro interesse, divenne un apologeta del nazismo. E quando, dopo Pearl Harbor, si scosse dal suo incantesimo, Roosevelt gliela fece pagare negando a lui, al primo, al massimo aviatore della storia americana, l’arruolamento in aviazione e il suo vecchio grado onorario di colonnello. Dovette accontentarsi di nascondersi sul fronte del Pacifico, dove addestrava giovani piloti di leva sbalorditi dal trovarsi di fronte all’"Aquila" in persona. E di compere diecine di missioni di guerra in solitudine, senza l’autorizzazione ufficiale dei comandi. Navigando e combattendo a vista.
A vista, proprio come era arrivato nelle acque dell’Irlanda nel pomeriggio del giorno dopo il miracoloso distacco dal fango di Long Island. Gridando in silenzio anche lui ‟terra, terra”, di fronte ai pescherecci che gli indicavano la vicinanza del continente, in un momento che celebrò contorcendo il suo metro e novanta per raggiungere una delle due borracce d’acqua sotto il sedile. Un istante di gioia che il motore spezzò, mettendosi a tossire e sputare fumo, dopo ventiquattro ore di perfetto funzionamento. ‟Ecco, è finita - si disse - sono stato troppo presuntuoso, troppo arrogante, troppo sicuro di me stesso”. E mentre dal finestrino laterale aperto, ormai a pochi metri dall’acqua, gridava a uno sbigottito pescatore che non poteva sentirlo ‟vado bene per l’Irlanda? In che direzione è l’Irlanda”, i duecento cavalli che lo avevano strappato allo schianto contro un trattore, ripresero fiato e il loro cuore ricominciò a battere.
Riprese quota. Sorvolò emozionato Plymouth, il porto del Devonshire dal quale la storia dell’America bianca e anglo era cominciata quattro secoli prima, con la partenza dei pellegrini a bordo del Mayflower nel 1620, attraversò la Manica, puntò su Cherbourg, la bocca della Senna, poi via verso Parigi, le luci della sera, la folla che nel buio riusciva a intravedere attorno al prato del Bourget e che lo avrebbe inghiottito alle ventidue e ventiquattro, appunto trentatré ore e mezza dal decollo. Leggenda vuole che, dal finestrino, avesse detto: ‟Sono Charles Lindbergh, ce l’ho fatta”, ma la frase dovette sembrargli troppo retorica e fino alla morte, nel 1971, avrebbe negato di averla mai detta. Sostenne di avere chiesto soltanto: ‟C’è un meccanico, qui?”, e di essersi subito preoccupato di mettere al sicuro il proprio aereo di tela dalle grinfie dei cacciatori di souvenir pronti a sbranarlo. La sua ultima foto poco prima della morte, insopportabilmente posata e insieme perfettamente naturale, ci mostra un vecchio settantenne ancora eretto e in giacca, magrissimo e in piedi su una scogliera del Nord Atlantico. Volta le spalle all’obiettivo e guarda l’oceano verso il quale si lanciò quando aveva appena venticinque anni e dal quale, viene il sospetto, forse non tornò più.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …