Michele Serra: L’ultimo choc del reality. "Mettiamo in palio un rene"

30 Maggio 2007
Circola, su scala europea, una notizia mostruosa. Tra i format di nuovo conio della multinazionale olandese Endemol c’è un reality-show per concorrenti dializzati, in attesa di trapianto. Il vincitore riceverà in premio un nuovo rene. I connotati della orribile notizia sono quelli, tipici, della leggenda metropolitana. Una abnorme dilatazione delle paure di massa che si materializza in un racconto fantastico. Eppure creduto da molti proprio perché prende l’abbrivio da paure maledettamente reali. In questo caso, la paura è che il cinismo mediatico, che negli ultimi anni ha dato prova di inesauribile efferatezza, possa davvero partorire un mostro del genere. L’ostensione dei corpi e della privacy sentimentale e sessuale delle persone è oramai pratica corrente, è concorso, è show, è audience, è mercato. E poiché nessuno – né i venditori né i consumatori – paiono in grado di stabilire un argine o un limite a questa progressiva escavazione dell’umano a scopo di lucro, perché mai negare a priori la possibilità che qualcuno abbia pensato a un format del genere, e intenda davvero mandarlo in onda?
Difatti, la notizia provoca almeno due reazioni. La prima reazione è: non ci posso credere, non posso credere che la sopravvivenza di un ammalato (uno su mille ce la fa…) sia un trofeo da acciuffare dentro un palinsesto, non posso credere all’ipotesi di un Welfare gestito dal Grande Fratello con l’arbitrio di un Mangiafuoco, o di uno Stato catodico autoproclamato. Ma la sana incredulità, che si appiglia alla sopravvivente certezza che un limite, da qualche parte, ci sia pur sempre, è subito insidiata dalla seconda reazione. Che è invece pessimista e sospettosa. Una nube di pensieri neri.
E i pensieri neri sono almeno due. Il primo, già detto, è che la china lungo la quale si muove molta industria televisiva è esattamente questa: forse che già non esistono format del dolore, spettacoli della sofferenza? Forse che, anni fa, molti dei reality attualmente in onda non ci sarebbero parsi di così inverosimile e crudele sbracatezza da ritenerli leggende metropolitane? Come possiamo escludere che la deriva si arresti?
Il secondo pensiero nero, perfino più crudo, è che ben prima dei reality è la realtà a dettare l’agenda dell’orrore: il mercato degli organi c’è, e non è stato inventato negli studi televisivi. I ricchi comperano il corpo dei poveri, il traffico di organi è una delle oscenità contemporanee, e quanto al valore dei corpi umani, al loro prezzo, alla loro pregnanza sociale, basta pensare ai naufraghi appesi per due giorni a un galleggiante per la pesca a strascico, senza che nessuno li ripeschi (i tonni valgono di più), per capire che no, non è la televisione, almeno non solo la televisione a programmare l’abominio e sbattercelo sotto gli occhi.
Riassumendo. È fortemente probabile, anzi è ovvio che gli ideatori di questo format, congegnato per dare scandalo (e concertato con la televisione pubblica olandese) siano "provocatori" che intendono sollevare un problema, scatenare un vespaio, magari in accordo con le numerose associazioni che, in tutto il mondo, si occupano di trapianti. Vogliono riaccendere i riflettori sulla vergogna del traffico d’organi, sulla penuria di donatori, sull’indifferenza al dolore.
A questo punto, però, la patata bollente torna nelle loro mani. Perché gestire un scandalo, dopo averlo evocato, non è facile. Lo sappiamo bene noi giornalisti, che così spesso pubblichiamo materiali "scandalosi" (vedi le intercettazioni private) per poi commentare pensosamente, giusto nella colonna a fianco, che forse non è etico, forse non è lecito dare in pasto alla gente la carne viva delle persone coinvolte. Sempre in bilico tra "diritto di informazione" e il dovere di risparmiare almeno i fattacci privati di chi finisce sotto lo sguardo mediatico.
Allo stesso modo, sarà molto interessante capire se la provocazione di Endemol si esaurirà, appunto, nella pura leggenda metropolitana, una gigantesca esca per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica, per provocare articoli come questo e titoloni sui giornali. Oppure se le telecamere davvero si accenderanno, sia pure a scopo di denuncia civile, su un gruppo di dializzati che aspettano il trapianto. Qui il margine tra "pubblicità progresso" e speculazione mediatica si fa molto sottile. Il circolo virtuoso e il circolo vizioso si intrecciano. Le buone intenzioni e il cattivo gusto rischiano di spianarsi la strada a vicenda, perché il secondo, molto spesso, serve a gonfiare le vele dell’audience, e le prime diventano il fine che giustifica ogni mezzo.
I media ci hanno abituato troppo spesso a sventolare ottime cause, perfino umanitarie, soprattutto per incrementare il loro bacino d’ascolto, per amplificare la loro voce, farsi largo nella competizione. È una ambiguità sopportabile, questa, solamente se il fine è così limpido da far passare in secondo piano il narcisismo e/o gli interessi economici di chi lo promuove. Se, per esempio, il format di denuncia sociale, ammesso che rientri nei limiti del rispetto del pubblico e dei protagonisti, dovesse procurare proventi pubblicitari all’emittente che lo manda in onda, o al produttore, diventerebbe molto più difficile distinguere la buona causa dai suoi lucrosi effetti collaterali. Purtroppo, viviamo in una società che ha collocato, lei per prima, il profitto al di sopra di qualunque altro metro di giudizio. E di tycoon televisivi che hanno fatto valanghe di quattrini speculando sulla "denuncia", facendone un genere fortunato e spregiudicato, ce ne sono già troppi. Ora spetta dunque a Endemol, che ha confezionato uno scandalo così ben studiato, gestirlo al di sopra di ogni sospetto. Di fronte ha un pubblico di sospettosi: noi che non vogliamo, neppure per un attimo, che il dolore sia un genere di spettacolo.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …