Umberto Galimberti: La donna nella cultura contemporanea. Resta il pregiudizio della superiorità maschile

17 Luglio 2007
Liberi dalla generazione, gli uomini hanno sempre giocato prima con gli animali nelle imprese di caccia, poi con le guerre per l’esercizio della potenza, quindi con gli dei inventando miti e narrazioni, di seguito con le idee producendo storia e cultura, infine col denaro per conquistare agi e privilegi. Alle donne hanno lasciato il compito della generazione e della crescita dei figli nel chiuso della casa dove era impedito loro di fare società.
Questo da sempre in tutte le culture meno emancipate e tendenzialmente ancora in quelle emancipate. Questa separazione, che relega la donna nel ciclo della natura e assegna all’uomo il gioco della storia, è alla base della mai dismessa pretesa della superiorità dell’uomo sulla donna, con conseguente esercizio della potenza non disgiunta dalla violenza che in tutte le culture, non esclusa la nostra, ha sempre caratterizzato una mancata amicizia fra i generi, una disuguaglianza ben più radicale di quella di classe, una sottomissione quando non uno sfruttamento che, inosservato, sfiora, nel chiuso delle case e dei nuclei familiari, forme non molto dissimili dalla schiavitù.
Sigillate nel loro burqa o avvolte nel loro chador le donne del mondo musulmano non possono che percepire la loro sessualità come qualcosa di esclusiva proprietà dei loro uomini, a cui forniscono soddisfazioni fisiche e figli, dopo matrimoni che neppure hanno scelto e a cui si sono consegnate nella più radicale negazione della loro autonomia, di cui non ne hanno spesso la minima percezione. Perché così vuole la tradizione che gli uomini hanno istituito e a cui loro non hanno mai preso parte. In caso di vedovanza devono riconsegnarsi al clan familiare che le riassegna in qualche altra subordinata condizione. Tutto ciò che in loro sommessamente parla di desiderio, aspirazione, progetto, creatività, che non sia quella fisica dei figli, deve tacere ed essere rimosso, perché per tutto questo in quelle culture non si danno spazi espressivi.
Se dal Medio Oriente ci spostiamo in Estremo Oriente o in Sudamerica o nei paesi resi "liberi" dal crollo dell’Unione Sovietica alle donne che vogliono non dico emanciparsi, ma sfuggire allo stato di indigenza a cui le costringono le condizioni di estrema povertà, non resta che affidare i figli alle nonne e migrare nei paesi ricchi per ritrovare, nel mondo dell’opulenza, quelle condizioni disagiate d’esistenza che le ammassa in gran numero in poveri locali per dormire la notte e distribuirsi di giorno in case dove ci sono vecchi da assistere, bambini altrui da curare o cose da riassettare. Affetti, sentimenti, memorie, rimpianti, futuri immaginati e sognati sono tutti vissuti da sradicare, per poter reggere nella nostra cultura dove il denaro è diventato l’unico generatore simbolico di tutti i valori.
E questo appena descritto è ancora uno scenario tutto sommato gratificante rispetto alle condizioni di prostituzione o di schiavitù a cui sono, prima ingannate, e poi costrette molte giovani donne che per un sogno di vita trascorrono le loro notti sui marciapiedi delle nostre periferie o nel chiuso di capannoni clandestini dove dormono, mangiano e lavorano, sostenute dalla vana speranza di potersi un giorno emancipare.
E da noi? Da noi tutto ciò accade sotto la falsa sembianza di una maggior eleganza che non sottrae la donna al regime della sottomissione o comunque della dipendenza, se non sempre economica, quasi sempre psicologica dalla figura maschile. E questo perché mentre il maschio nella sua povertà psicologica è solitamente una "identità" che instaura relazioni, per lo più in ambito maschile dove continua a giocare alla guerra nella forma della competizione, o al sesso nella forma dell’occasionale seduzione, la donna è tendenzialmente "relazione" da cui ricava il suo riconoscimento e quindi la sua identità.
Il due (la relazione) è il costitutivo del femminile. Ciò che consente alla donna di prendersi cura dei figli secondo modalità sconosciute all’uomo e di sedurre gli uomini con forme di fascinazione sorprendenti, se appena gli uomini fossero in grado di sollevare il proprio sguardo oltre la dimensione sessuale a cui si limitano a causa della loro povertà psichica.
Come può avvenire un riscatto della donna? Non con processi di emancipazione sociale, economica, giuridica peraltro auspicabili e utili. Non con una rivendicazione di uguaglianza che da noi significa imitazione dello stile di vita maschile, con progressiva negazione della specificità femminile fatta salva la seduzione sessuale, ma con una maturazione antropologica che si verificherà quando, esausti dall’affermazione della loro identità e dagli sforzi richiesti per confermarla, gli uomini incominceranno ad accorgersi che la gioia, la felicità nascono dalla relazione, di cui la donna è per natura la gelosa custode o la misconosciuta interprete.
Se non si arriva a catturare questo segreto e quindi a scoprire che cos’è davvero il femminile, al di là dell’angusta visualizzazione maschile della donna, non ci resta che il ricorso agli antidepressivi o all’alcool o alla droga, perché non c’è gioia nell’io e nella sua esasperata autoaffermazione, ma solo nella relazione che è il linguaggio tipico della donna, di cui l’uomo, fatta eccezione per rari casi, deve ancora imparare l’alfabeto.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …