Umberto Galimberti: La lunga storia dell’uomo-macchina

20 Luglio 2007
Tutto incominciò con Cartesio che, con una mossa sorprendente e insospettata, trasformò il nostro corpo in organismo, ovvero in quella sommatoria di organi suscettibili di essere indagati come si indagano le componenti di qualsiasi macchina.
Prima che La Mettrie, nel 1747, cominciasse a far circolare in Olanda il suo L’homme machine, che suscitò tanto scandalo, nonché la reazione del pur liberale governo olandese che cercò di distruggere tutte le copie, fortunatamente senza riuscirci, un secolo prima Cartesio, aveva posto le premesse per l’oggettivazione del corpo, per la sua riduzione a macchina, perché solo così era possibile inaugurare un sapere scientifico del corpo che noi oggi riconosciamo nel sapere medico, per il quale, ad esempio, la collera differisce dalla gioia solo per una differente intensità del ritmo respiratorio, del tono muscolare, dello scambio biochimico, della pressione arteriosa, anche se fatichiamo a persuaderci che il collerico è un arcicontento o che un riso di gioia sia identico a un riso isterico, perché entrambi impegnano la stessa area muscolare.
Disarticolato nei suoi organi ridotti a ingranaggi di una macchina, il corpo perse la sua bellezza resa statuaria dalla scultura greca, cessò di essere espressione di passioni, esaltazioni e dolori come ci documenta l’arte medioevale e rinascimentale, per diventare pura anatomia che ha nel cadavere il suo modello privilegiato di studio e di riferimento, mentre la vita era consegnata alla fisiologia degli organi e qui relegata, senza nessuna variante che non fosse l’alterazione degli organi e del loro funzionamento che trovò la sua descrizione nella patologia.
L’identità di ciascuno di noi si separò dall’organismo così descritto e si raccolse in quell’entità imprecisa e di difficile identificazione che prese il nome di "psiche". Nacque la psichiatria che prese a occuparsi di quei casi che presentavano un "morbus sine materia", una malattia senza riscontro organico, come richiedeva la condizione ormai consolidata del corpo ridotto a sommatoria di organi.
Questa riduzione fu essenziale per la nascita della scienza medica e per i suoi progressi attraverso i passaggi che condussero il sapere medico dallo studio degli organi (anatomia) e del loro funzionamento (fisiologia) allo studio delle molecole e delle proteine (biochimica), fino allo studio dei cromosomi (genetica) dove con un rigore che non ammette eccezioni, è scritto il nostro destino un tempo scrutato nelle stelle del cielo.
Ma l’effetto finale fu l’oggettivazione del nostro corpo, la sua abissale distanza da noi, perché nel corpo ridotto a organismo che la scienza descrive io non mi riconosco, perché è un corpo che non mi rivela, non mi rappresenta, non mi esprime. Per quanti sforzi io faccia per rintracciare l’effetto delle mie venti sigarette giornaliere in una lastra non riuscirò a identificarmi con il danno prodotto, come invece riesco quando corro per prendere un treno o quando faccio l’amore. C’è infatti un’abissale differenza tra il corpo "vissuto" e il corpo "oggettivato" dalla scienza. La lingua tedesca chiama il primo Leib, una parola che ha parentela con Leben (vita) e con Liebe (amore), e il secondo Körper o Körper-ding (corpo-cosa).
Sul corpo ridotto a cosa si sono applicate le neuroscienze individuando i responsabili organici delle nostra felicità e della nostra tristezza, della nostra capacità di amare e della nostra indifferenza, della nostra collera e del nostro entusiasmo. Su queste scoperte si è buttata subito l’industria farmaceutica, e con lei tutti noi, per modificare per via biochimica la condizione della nostra esistenza, senza più cercare nelle parole dell’anima, di cui non riconosciamo più il linguaggio, il racconto della nostra vita.
E fin qui tutto bene o tutto male a secondo dei gusti. Ma sul corpo ridotto a organismo si è buttata anche l’informatica a cui stiamo affidando, oltre alle impronte digitali, anche quelle retiniche, quelle vocali e persino quelle olfattive. Possiamo misurare la distanza che intercorre tra le nostre dita divaricate, nonché la cadenza della nostra andatura. L’organismo ci rivela. E la tecnica può rapirci quanto di più intimo, di più nostro, di più segreto custodiamo come riferimento ultimo della nostra identità.
Potremo avere passaporti che raccolgono in un microchip tutti questi dati. Finiremo con l’essere, come da sempre siamo, sconosciuti a noi stessi, ma trasparenti a chiunque voglia saper tutto di noi. La nostra identità dovrà piegarsi alle esigenze di identificazione e il nostro corpo diventerà una password che rende accessibile a tutti la nostra identità, catturata in quell’unico recesso che non possiamo nascondere: la nostra fisicità.
Tra corpo e tecnica c’è sempre stata una tresca segreta. L’uomo si è distinto dall’animale proprio per la capacità di accrescere le possibilità del suo corpo con la strumentazione tecnica, a cui ha conferito prima il potenziamento della vista, dell’udito, della deambulazione, poi la riduzione dell’estensione dello spazio e del tempo, quindi il potenziamento della memoria. Oggi, con le possibilità messe a disposizione dall’informatica, il corpo sta consegnando alla tecnica anche il potere di controllo che riduce la nostra fisicità a superficie di scrittura, dove è possibile leggere la nostra identità ormai indifesa.
Non solo gli stili di vita, non solo il nostro modo di lavorare e di vivere è rigorosamente condizionato dalla tecnica, ma anche la nostra identità è ispezionata in quell’ultima frontiera che ci era rimasta: il segreto del nostro corpo, oggi visualizzabile fin laggiù dove custodiamo quell’ultima riserva di libertà, garantita dalla barriera tra il dentro e il fuori, tra il pubblico e il privato, tra l’intimo e l’esteriorizzato. In questo radicale capovolgimento del rapporto tra corpo e tecnica, il pericolo non è solo nella completa pubblicizzazione della nostra intimità più segreta, ma nell’interrogativo, difficilmente eludibile, che ormai si chiede non più cosa possiamo fare noi con la tecnica, ma che cosa la tecnica può fare di noi.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …