Luigi Manconi - Andrea Boraschi: L’ipocrisia in passerella

26 Luglio 2007
Storia di qualche giorno addietro, ennesima puntata di una polemica stucchevole e un po’ idiota. Non perché il tema sia di poco conto (tutt’altro): quanto perché appaiono vieppiù ipocriti gli argomenti e i toni con cui lo si affronta. Sfilate di moda a Roma, Palazzo Valentini. La stilista Raffaella Curier prende posizione contro alcune modelle (quindici, pare) ‟troppo” magre, a suo giudizio palesemente affette da disturbi anoressici: e decide di non farle sfilare. Decide di non promuovere, con il suo lavoro, un modello ‟patologico” di femminilità: quello che, secondo molti, è un invito esplicito (o, peggio, un condizionamento insistito e insinuante) a rifiutare cibo e benessere per aderire a ideali estetici lontani dalle nostre possibilità fisiologiche e ‟malati”. Ne segue una piccola polemica, con una di queste modelle, la kazakha Alona, che non ci sta. Che rifiuta quel sospetto ingombrante sulla sua magrezza, dichiara di essere da sempre molto asciutta, di godere di eccezionale appetito, di avere un organismo sano (tanto da aver partorito tre figli); e dice di non conoscere casi di anoressia nel mondo della moda, accusa gli stilisti di sottoporre le modelle a turni massacranti senza neppure il conforto di un bicchier d’acqua. Invita a sgomberare il campo da qualsiasi dubbio o illazione, ad accettare la fisicità delle top model - fin quando i canoni estetici ci indurranno a farlo - come un dato naturale, ancorché eccezionale. L’esito della querelle è il ‟reintegro” di Alona sulle passerelle della moda romana. Nulla si sa delle sue colleghe, né delle motivazioni che hanno consigliato a questa apparente marcia indietro. Ma il punto è un altro. Ed è complesso e scivoloso. In primis, vi è una questione di costume e di cultura. Il mondo della moda somiglia a ciò che erano i circhi e gli spettacoli da fiera nei secoli scorsi: dove venivano esibiti i ‟freaks”, stranezze di natura (donne barbute, uomini giganti o nani, casi eccezionali di pinguetudine, di deformità, di ‟stranezza”), per la curiosità morbosa di un pubblico capace di mondare, nello spettacolo dell’altrui alterità, le proprie ansie e nevrosi. Oggi, in virtù di un singolare ribaltamento delle polarità, caratteristiche fisiche meno devianti e certo non ‟orrorifiche”, e, tuttavia, parimenti distanti dai canoni medi della ‟normalità”, sono assurte a primato estetico. Allontanando l’uomo e la donna comuni dai canoni mediatici della bellezza e dell’eleganza. La moda ha contribuito a questo passaggio: sfruttando la magrezza, l’androginia, la bellezza siderale e glaciale, austera e innaturale di corpi e volti femminili che stanno alla popolazione di questo pianeta come i panda al mondo animale; e la prestanza scultorea, l’armonia, la possenza - e talvolta, anche qui e per contrasto, l’androginia e il pallore, la femminilità e la delicatezza - di corpi e volti maschili, che ben poco richiamano le prerogative somatiche e fisiche della virilità ‟della porta accanto”. Sfruttando tutto ciò, a fini puramente commerciali; e proiettando su quelle figure eteree e innaturali, oggi come in quei circhi di cui dicevamo, ennesime ansie e nuove nevrosi. Oggi la moda (quello di Raffaella Curier non è il primo pronunciamento in tal senso) dichiara di voler ripudiare questo trend, per motivi, diciamo così, etico-sanitari. Per non invitare il pubblico femminile, in particolare, a condotte alimentari e stili di vita nocivi. Per non istigare all’anoressia. E facendo finta di non sapere come e quanto questo tipo di polemiche non facciano che consolidare ulteriormente, per un paradosso ovvio, il canone della modella ‟pelle e ossa”: che viene confermata (e non smentita) come stilizzazione somma della femminilità contemporanea; e che viene indicata, in aggiunta e per giunta, come trasgressione eccentrica e pericolosa, bandita non per la sua ‟inadeguatezza” alle passerelle quanto per la sua ‟troppa perfezione”. Non a caso si evita di scegliere in prima battuta qualche indossatrice più ‟in carne” (pardon); no, si convocano le solite magrissime, ci si stupisce del loro giro vita e per questo le si ripudia. Salvo poi accoglierle nuovamente a braccia aperte, perché ‟come loro non c’è nessuna”. E qui, in effetti, veniamo ad altre questioni. C’è mai stato, a vostra memoria, un qualche stilista affermato che abbia deciso di far sfilare una pattuglia di modelle taglia 42 (o più) per pura scelta estetica? La risposta la conosciamo tutti: ed è solo indice di quanto l’industria della moda, sull’artificio e su quella che a tutti appare ‟innaturalità”, abbia costruito un mercato floridissimo, sino ad affermare un modello antropologico. Può quell’industria rifiutarsi di far lavorare una modella perché troppo magra? Certo che può. Fin quando la motivazione, appunto, non ha a che fare con un’illegittima presunzione di poter indagare il rapporto di una donna con il cibo e con il suo corpo, dopo aver promosso e sponsorizzato, per decenni, una vita tutta fondata sui centrifugati di carote (o peggio). Il paternalismo dello stilista che dice alla modella ‟mangi troppo poco”, non facendola sfilare per punizione, al fine di indurla a un rapporto meno nevrotico con l’alimentazione, è discutibile e fuori luogo. Voi accettereste che qualcuno vi impedisse al lavoro con la presunzione di voler salvaguardare la vostra salute? E inoltre: non sarà questa, per caso, l’ennesima banalizzazione di una patologia (l’anoressia) assai grave? È legittimo ritenere che quel disturbo - che ha radici profonde e motivazioni complesse - possa essere indotto dalla semplice opportunità professionale e dal bisogno di primeggiare sulle passerelle? Non viene forse da più lontano? Ana Carola Reston, morta qualche mese addietro per denutrizione, era anoressica perché faceva la modella o faceva la modella perché era anoressica?

Luigi Manconi

Luigi Manconi insegna Sociologia dei fenomeni politici presso l’Università IULM di Milano. È parlamentare e presidente della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato. Tra i suoi libri …