Umberto Galimberti: Le famiglie minime di Milano

25 Luglio 2007
La famiglia minima, condizione alla quale ambivo all’età di 12 anni come antidoto alla mia famiglia composta da padre, madre e nove fratelli. Da allora presi a cercare la solitudine seguendo l’indicazione di Montaigne: ‟Ritiratevi in voi, ma prima preparatevi a ricevervi. Sarebbe una pazzia affidarvi a voi stessi se non vi sapete governare. C’è modo di fallire nella solitudine come nella compagnia”. E fin qui siamo alla solitudine cercata, quella per cui Sartre diceva: ‟L’inferno sono gli altri”, ma poi aggiungeva: ‟E’ anche vero che si vive come un inferno la loro assenza”. Ed è di questo inferno che oggi vorremmo occuparci. A Milano su 677 mila famiglie ben 334 mila sono composte da una sola persona, dove la maggioranza è costituita da single che non hanno fatto una scelta, ma in questa condizione si sono trovati per contingenze della vita, sorte infausta, ineluttabilità, come possono confermare i 106 mila single over 65, vittime di una solitudine non scelta, interrotta solo da tentativi di socialità forzate. Sono persone che si nutrono di sentimenti di perdita e di abbandono, di isolamento e di emarginazione. Ricerche mediche americane condotte nel 2005 ci dicono che la solitudine è la prima causa di suicidi (al secondo posto la depressione, che spesso accompagna la solitudine) a cui si aggiunge la compromissione della salute fisica, se è vero che dopo dieci anni di solitudine la possibilità di contrarre gravi malattie è doppia rispetto alle persone che hanno una buona socializzazione. Quasi una conferma ‟biologica” della definizione aristotelica dell’uomo come ‟animale sociale”, non solo per bisogno di scambio e di comunicazione. Ipertensione, insonnia, cefalea, astenia, problemi di alimentazione sono i sintomi che, secondo queste ricerche, caratterizzano coloro che vivono soli. Non sanno con chi andare, non sanno con chi parlare, non sanno perché devono continuare ad alimentarsi. Un ‟buongiorno” e un ‟buonasera” quando si incontra il vicino di casa, e poi più nulla, se non frustrazione per quei specifici bisogni sociali che vanno dall’intimità all’attaccamento, dall’amicizia all’appartenenza a una comunità, con conseguente limitazione dei desideri, delle aspirazioni, dell’autostima, fiancheggiando di continuo il baratro della depressione. Henry David Thoreau, filosofo americano del XIX secolo, ha lasciato scritto: ‟Avevo tre sedie in casa: una per la solitudine, due per la compagnia, tre per la società”. A Milano, ma penso che questa condizione sia comune a molte città italiane, due di quelle tre sedie restano immancabilmente vuote e, riflettendosi in quel vuoto, la vita si attorciglia nei pensieri più funesti. Il sentimento si inaridisce e lo spazio che ancora concede si riempie di tristezza che, per pudore o per non palesare la propria condizione, non si ha neppure la forza di comunicare. Se questa è Milano, e probabilmente non solo Milano, che ne sa la politica di questa dolorosa e così diffusa condizione? E soprattutto che ne è del futuro di una società dove la metà delle famiglie è composta da una sola persona che, oltre a non generare, perde anche competenza sociale e capacità di relazione? E qui neppure l’assidua frequentazione di Internet li può aiutare, perché non è di fronte a un video che si scalfisce l’isolamento, così come non è comunicazione quella che ci si scambia tra volti ignoti.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …