Umberto Galimberti: Il caffè chiuso alla domenica mi rende nervoso

31 Luglio 2007
Perché alla domenica, negli weekend lunghi, nelle ferie estive a Milano non puoi bere un caffè, a meno che tu non vada in galleria a pagarlo 5 euro dal momento che in città nessun bar è aperto? Capisco che dalle 7 alle 9 dei giorni feriali i bar tra caffè, cappuccini e brioche guadagnano in un giorno quello che gli operai non guadagnano in una settimana, ma proprio per questo obblighiamoli al piccolo risarcimento di tenere aperto il locale, magari a turno, anche alla domenica, come accade in tutte le città d’Europa. Il caffè della domenica, infatti, non è come quello dei giorni feriali bevuto in gran fretta, un po’per svegliarci, un po’per risarcirci dello stress a cui andremo incontro durante la giornata. Il caffè della domenica risponde a un’altra esigenza che è quella del piacere e della socializzazione. Il piacere di leggere rilassati il giornale di cui nei giorni feriali leggiamo solo i titoli in metropolitana, il piacere di vagare meditabondi tra i pensieri che durante la settimana non abbiamo tempo di pensare, il piacere di osservare chi entra e chi esce per farci un’idea dei vari tipi umani a cui nei giorni feriali non dedichiamo neanche uno sguardo, il piacere di incontrare un amico per il tempo di un caffè, un tempo perfetto perché non è il tempo lungo di una cena (peraltro programmata con largo anticipo) dove troppi convenevoli mortificano la sincerità, e non è neppure il tempo breve di un saluto affrettato perché si è di corsa. Il tempo del caffè è il tempo "giusto" dove ci si guarda commentando l’insensatezza della vita, non troppo a lungo per non deprimersi, né troppo breve per non considerarla proprio. Tutto questo a Milano non è possibile perché alla domenica i bar sono chiusi. E a mezzogiorno anche i ristoranti, perché non ci sono "colazioni di lavoro", né tanto meno quelle "pause pranzo" dove al bar, stipati come sardine, si inghiottono insalate per nutrirsi senza appesantirsi. Ma tutto questo cosa significa? Significa che a Milano si lavora e non si socializza più. Alla domenica, o tutti fuori città, o tutti allo stadio, o tutti a casa. Perfino i locali dove si vendono le "pizze d’asporto", che si sono moltiplicati, sono un invito a scappare dai luoghi aperti al pubblico per intanarsi in casa. Tolta piazza Duomo dove giovani, vecchi, genitori e bambini ciondolano per alcune ore senza meta, o piazza Duca d’Aosta dove, intorno alla stazione centrale, si raccolgono gli extracomunitari per ritrovarsi e bere le loro lattine di birra insieme, le altre strade e piazze della città sono senza punti di riferimento e luoghi di incontro. Forse quattro bar aperti non bastano per favorire la socializzazione, ma la loro serrata settimanale certo non aiuta. E comunque nelle città europee non accade. A Parigi, per esempio, alla domenica nei bar si organizzano i cosiddetti "caffè filosofici" dove la gente ha l’occasione di discutere di quello che non discute mai, pur sentendone un gran bisogno. Ad Amsterdam questa pratica è ancora più diffusa, oltre ad altre opportunità in parte lecite e in parte per noi illecite. Non parliamo di Londra, di Berlino, di Barcellona. Città aperte, dove non si lavora meno che da noi, ma dove il lavoro non ha soppresso quegli spazi di vita senza i quali anche il lavoro non ha alcun senso. Non chiedo la rivoluzione degli usi e costumi di questa città sempre più funzionale ed efficiente, ma anche dai rapporti umani sempre più desertificati, asfittici, fino al limite dell’insignificanza. Ma davvero si crede che, collassando la socializzazione, una città possa esprimere vitalità e far circolare sensazioni, emozioni, iniziative, idee? Credo proprio di no. E allora incominciamo da una piccola cosa. Alla domenica apriamo i bar per un caffè che possa essere una facile occasione di incontro e poniamo fine a questo stile di solitudini di massa che sembra sia diventato la caratteristica peculiare della città.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …