Vittorio Zucconi: La grande fuga dalla Casa Bianca

29 Agosto 2007
La purga dell’amministrazione Bush, inaugurata dieci mesi or sono con la cacciata dello stratega della catastrofe irachena, Donald Rumsfeld, continua e raggiunge l’ultimo superstite della ‟Texas Mafia”, il gruppo di fedeli che costruirono la vita, le fortune e ora i rovesci di George Bush.
A 52 anni, al vertice della propria favolosa carriera come "Attorney General", primo ministro della giustizia di origini ispaniche nella storia degli Usa, Alberto Gonzales è stato scaricato molto controvoglia da una Casa Bianca che deve a ogni costo gettare zavorra per riprendere quota nei suoi ultimi 17 mesi. È un’altra vittima, fortunatamente per lui solo civile, di quel Vietnam nella sabbia che continua a fare strage di vite umane, di reputazioni e di carriere.
Alberto Gonzales era da 12 anni il primo "consigliori" di Bush prima in Texas e poi a Washington e ha dovuto seguire le orme di Paul Wolfowitz, Dick Bremer, Colin Powell, Donald Rumsfeld, Harriet Miers (consigliere legale della Casa Bianca proprio dopo Gonzales), Karl Rove e dozzine di altri funzionari e collaboratori chiamati tutti a pagare per proteggere colui che non può pagare, il presidente.
La fuga di ministri, collaboratori e funzionari di nomina politica alla fine di una presidenza è un evento fisiologico, nella dinamica di tutte le amministrazioni americane. Negli ultimi mesi, soprattutto se si diffonde la sensazione di un inevitabile ‟cambio di vento” politico, si cerca di incassare nel settore privato i crediti e le relazioni acquisiti nel mal retribuito servizio pubblico. Ma l’abbandono di "Gonzo", come voleva il nomignolo, sbugiardato nelle sue deposizioni giurate, accusato di avere violentato la costituzione e di avere calpestato il diritto di tutti al giusto processo nella foga della ‟Guerra al Terrore”, è il segnale della fine per il ‟Team Bush”. È la fuga dei topi, la derattizzazione voluta dal nuovo Richelieu della destra, Ed Gillespie, che dalla presidenza di un partito repubblicano allo sbando l’ha praticamente commissariata, cercando di salvare i resti del partito da una nuova bastonata elettorale nelle elezioni del novembre 2008. Sono stati i repubblicani, è stato il partito nominalmente ancora di Bush, a ottenere la purga, nel segno del ‟mors tua vita mea”.
Gonzales, figlio di un immigrato messicano alcolizzato ma grande lavoratore, cresciuto vendendo bibite agli studenti ricchi nello stadio della Rice University a Houston dove poi avrebbe studiato prima di laurearsi in legge a Harvard, è una magnifica e amara parabola americana ‟dagli stracci alle stelle” inquinata alla fine dalla obbedienza cieca e assoluta a colui che l’avrebbe fatto grande e poi involontariamente distrutto difendendolo. Quel George Bush che sta divorando uno a uno i propri amici e compagni più leali.
Non era un uomo con una propria agenda politica da promuovere. "Gonzo" era Bush, era la sua incarnazione. Se Karl Rove era il cervello politico di "W", Gonzales era il suo piccolo Machiavelli leguleio, il giurista che forniva alla ‟Texas Mafia”, le stampelle giurisprudenziali sulle quali muoversi. Dallo studio legale di Houston che aveva tra i propri clienti i criminali della Enron e la Halliburton, della quale Cheney era presidente, e poi dalla capitale del Texas, Austin, aveva dato al governatore Bush gli argomenti per leggere i codici, gli avversari dicono per ‟legiferare” abusivamente, la stessa accusa che ironicamente la destra rivolge alla magistratura suprema, secondo gli interessi politici del capo. Si era guadagnato la ammirazione del futuro presidente negando, sempre, le richieste di grazia venute dai condannati a morte. Come voleva Bush, alla ricerca dell’immagine di duro giustizialista da vendere sul teatro nazionale.
Proprio questo suo essere la controfigura legale del suo protettore, anche da un ministero che invece non dovrebbe funzionare come lo studio legale del governo, è stata la strada che lo ha portato all’umiliazione di oggi, quando, dopo un viaggio lampo nel ranch texano del suo padrino, ha annunciato le dimissioni inghiottendo le lacrime. E ricordando con nostalgia il padre, come Nixon aveva ricordato la ‟santa madre” al momento di essere cacciato. La sua colpa, se colpa è stata perché finora nessun reato gli è mai stato contestato, è stata di avere eseguito diligentemente le istruzioni, piegando la legge, la costituzione, la Convenzione di Ginevra (‟un pezzo di grazioso antiquariato” fu la sua definizione) alle scelte dello Studio Ovale. Non ci sarebbe ora una Guantanamo, senza l’opinione giustificazionista di "Gonzo".
La sua era la funzione dell’"enabler", dice l’espressione in inglese, non di colui che fa, ma che mette altri in condizione di fare e ne giustifica le azioni, l’azzeccagarbugli chiamato a trovare, o creare, nelle biblioteche di giurisprudenza gli alibi per coprire le operazioni militari e di polizia. L’imbarazzo straziante delle sue balbettanti testimonianze davanti a un Senato che dopo il novembre del 2006 aveva cambiato maggioranza, l’insulto all’intelligenza di un ministro che per 71 volte aveva giurato di ‟non ricordare” nulla della importante decisione di licenziare sei procuratori della repubblica perché non abbastanza bushisti, erano il prodotto della sua assoluta lealtà di pretoriano. Costretto, alla fine, a gettarsi sulla spada travolto ‟dal fango ingiusto”, lo ha difeso Bush, ovviamente per proteggere se stesso.
Ora il Presidente è più solo, dopo la grande purga, con un partito che lo considera un passivo elettorale. Ma la fine della ‟Texas Mafia” non è necessariamente una buona notizia per l’opposizione. Come disse proprio Richard Nixon, ‟ora non avrete più un Nixon da prendere a calci”, e così Clinton, Obama, Edwards e i leader della maggioranza non avranno più i Rumsfeld, i Wolfowitz, i Rove, i pupazzi neocon e i "Gonzo" da usare per strappare l’applauso nei comizi. Ora i democratici dovranno trovare altre e positive ragioni per chiudere un voto che sia per loro, e non soltanto contro Bush.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …