Michele Serra: L’egemonia culturale della famiglia Simpson

13 Settembre 2007
Che i Simpson siano uno dei capolavori della cultura pop di tutti i tempi lo pensiamo in parecchi. Un successo planetario raggiunto "nonostante" l’altissima qualità della satira di Matt Groening e del suo staff. E, per noi fan più stagionati, uno dei pochi momenti di comunione intellettuale con i figli adolescenti, perché i Simpson (miracolo!) riescono a tenere insieme la formidabile, nevrotica velocità del racconto televisivo e il peso specifico di una critica sociale raffinata e molto ma molto "scritta".
Capita così che, guardando insieme i Simpson, noi genitori dobbiamo farci spiegare dai figli le battute troppo veloci, che sfuggono ai nostri lenti neuroni, mentre i figli chiedono ai genitori ragguagli sulle allusioni politiche e storiche che sfuggono alla loro breve esperienza. Probabile, dunque, che il primo film dei Simpson (che approda da domani nei cinema italiani) riesca a ricostituire nelle sale lo stesso, non comune mix di adulti e ragazzini che già si raduna, da anni, davanti al video. "Famiglia", del resto, è un concetto molto simpsoniano. Oltre a essere la ragione sociale dei cinque solisti Homer, Marge, Bart, Lisa e Maggie (padre, madre e tre figli), è anche la sola forma di aggregazione e sostegno che regge nella esilarante ma mostruosa America nella quale vivono i Simpson.
Nel film questo elemento è ancora più avvertibile. Per usare i (piccoli) parametri di casa nostra, diciamo che siamo ben oltre la cosiddetta antipolitica. In uno stadio molto più avanzato di dissoluzione sociale. Perché se il potere (economico e politico) è sistematicamente raffigurato come un insieme di paranoici, di imbecilli e di corrotti, il popolo non è certo migliore. È una folla avida e meschina, manipolabile dai media e dalla pubblicità. Pronta a linciare il vicino di casa o a riconoscerlo salvatore del mondo nel giro di un equivoco, di un sospetto, di una fola. Chi ama i Simpson ride molto, e ride amaro, non solamente alla spalle del Palazzo (pratica, questa, molto comoda e dunque molto seguita qui in Italia), ma anche alle spalle dell’uomo della strada, in genere una piccola canaglia che inveisce contro le grandi canaglie del potere: la differenza è solo di calibro, non di qualità. I cinque Simpson, dunque, sono costretti a confidare solamente in loro stessi, come naufraghi di una catastrofe antropologica che si aggrappano alla famiglia non perché la "amino", o ne percepiscano una qualche superiorità etica, ma solo perché è l’ultima zattera disponibile. Un’Arca scalcinata, comicamente inadeguata, dopo il diluvio che ha sommerso ogni altro vincolo sociale. (E vengono in mente Vonnegut, Palahniuk, e parecchia altra letteratura americana degli ultimi decenni).
Detta così, la morale del film, e dell’intera saga dei Simpson, rischierebbe di essere quasi ratzingeriana: in una società mostrificata dal consumismo e dal cinismo, la famiglia è l’unica salvezza. Ma il bello dei Simpson (e anche il brutto, a pensarci bene) è che l’allegria satirica non si ferma davanti ad alcuna "moralità". La famiglia Simpson non ha proprio niente d’immune o di "diversamente etico". Il capofamiglia, lungi da essere un modello, è un cialtrone bulimico, schiavo della televisione, il figlio maschio un analfabeta etico, esibizionista e sbruffone, la figlia Lisa una petulante caricatura del moralismo politicamente corretto, l’eterna neonata Maggie un fagotto trascurato. Forse solo la madre, la malinconica Marge, può apparire custode di qualche tabernacolo affettivo. Sopportare Homer, la sua pancia sconciamente esposta, i suoi rutti e la sua inettitudine sociale è di per sé un atto di eroismo. Sì, è la madre la vera eroina della situazione: ma quanto valga battersi per una famiglia che si alimenta di tutti i peggiori miti e vizi del consumismo, succube della propria mediocrità, è una risposta che la satira, per fortuna, non vuole e non deve porsi.
Magari, dopo avere molto riso (il film è un capolavoro di umorismo: sceneggiatura e dialoghi non perdono mezzo colpo), qualche domanda possiamo farcela noi. I Simpson hanno ottenuto un clamoroso successo planetario, di pubblico e di critica, mettendo in ridicolo (e per questo sono detestati dalla destra americana) tutti o quasi i presupposti dell’Impero: il patriottismo, il sogno americano, il merito economico, lo zelo religioso come pretestuosa ragione di superiorità. E perfino il solido e glorioso mito dell’Individuo onesto e coraggioso, che rimane integro e in virtù di questa integrità può salvare il mondo, nel film è fatto a pezzi: a innescare il disastro ambientale che sta per distruggere il pianeta è proprio Homer, l’americano medio (l’Alberto Sordi degli States, potremmo dire), il cui stile di vita è di per sé un attentato alla logica prima ancora che all’ecologia.
Infine, dunque, se possiamo rintracciare un bandolo "etico" nel notevole piacere che ci dà vedere i Simpson (se, cioè, non vogliamo dirci definitivamente cinici, e rassegnati), ebbene il bandolo può essere proprio questo: nessuno è assolto, nessuno è immune, tutti siamo coinvolti. Imparando a ridere prima di tutto di noi stessi, della nostra bulimia e del nostro egoismo, della nostra stupidità di sudditi; e finendola, una volta per tutte, di pensare di essere solamente vittime del Potere: solo allora riusciremo a capire in che mondo viviamo, di quale pazzia siamo affetti, di quante responsabilità siamo carichi. Non è vero che "una risata vi seppellirà". Semmai, una risata "ci" seppellirà. È molto diverso. Ed è la ragione profonda per la quale vado matto per i Simpson.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …