Vittorio Zucconi: Google. I dieci anni che sconvolsero il web

17 Settembre 2007
Modesti non erano, neppure da ragazzi. Quando i due studenti ventenni di Stanford, Larry Page l’americano e Sergey Brin il russo, registrarono dal solito garage in California il buffo nome della loro aziendina, "Google. com" il 15 settembre di dieci anni or sono, il "mission statement", l’obbiettivo dichiarato era questo: ‟Organizzare la conoscenza del mondo intero e renderla accessibile a tutti”. Modestamente. Un Dio geloso avrebbe potuto offendersi molto per lo sfacciato tentativo di ricostruire la Torre di Babele, renderla questa volta accessibile a tutti e farli secchi. Ma quel giorno di settembre di 10 anni or sono, l’Onnipotente doveva essere di buon umore, perché li lasciò fare e dovette anche benedirli. Un decennio più tardi, "Google" è la terza religione del mondo, dopo l’Islam e il Cristianesimo, con 600 milioni di fedeli al giorno che si inginocchiano davanti al suo altare del sapere infinito dischiuso sul monitor del PC dal meccanismo di ricerca, l’algoritmo, inventato da quei due. E il milione di dollari prestato ai due ventiquattrenni da lungimiranti finanzieri di ventura per fondarla è diventato, sul mercato azionario, 164 miliardi di dollari. Più del prodotto interno lordo di 170 nazioni. Non c’è al mondo, neppure nella Cina dei miracoli abbaglianti, una società, una banca, un’azienda, che sia cresciuta tanto, in così poco tempo e negli anni dell’uragano catastrofico che sembrò travolgere il brodo primordiale della nuova economia: 164 mila volte il capitale iniziale. E se ancora Page e Brin, i due profeti della nuova Babele comprensibile, non hanno ancora raggiunto le dimensioni della Microsoft di Bill Gates che controlla il funzionamento del 90% dei personal computers del mondo attraverso il proprio sistema operativo Windows, la "Google" è il cuore di Internet e la sua crescita è mostruosa. Alla fine del 2001, il volume di incassi era appena di 86 milioni di dollari. Alla fine del 2006 cinque anni dopo, era a 6 mila e 500 milioni di dollari, sei miliardi e mezzo. Sul fatto che i due soci fondatori, ciascuno dei quali si assegna uno stipendio da impiegato di banca, di 40 mila dollari lordi l’anno, ma che ha nel portafoglio titoli per oltre 20 miliardi, abbiano qualche benigno complesso di Dio, è ovvio. Non soltanto nelle loro parole, ma nell’atmosfera conventuale, da chiostro benedettino high tech, palpabile nella loro sede di Menlo Park a Palo Alto, sotto San Francisco. Nell’ora, labora et programma del monastero, dove i monaci e le monache di internet scivolano via nel silenzio increspato soltanto da fruscii e dagli occasionali bip-bip dei computers, si mangia insieme, si gioca insieme, si ricerca insieme, ci si fanno tagliare i capelli e otturare le carie insieme, nei furgoni mobili di tonsori, dentisti e laboratori mobili per analisi mediche che parcheggiano fuori dal ‟campus”. Tutto è trasparente, nella Babele di cristalli, perché tutti possano vedere tutto, anche Brin e Page che giocano con le automobiline radiocomandante e le riprogrammano, nei momenti di paeua dalla fatica di essere ‟buoni”. Perché l’altro motto centrale di Google è ‟Noi non facciamo il Male”. Non deliberatamente, forse, ma quando si diventa il Tirannosaurus fra le lucertole, qualche spavento si provoca. Google, che è la rappresentazione di una formula matematica, (Page è figlio di un professore universitario di matematica) ha divorato oltre il 50% di tutte le richieste e le ricerche via Internet ed è stato ormai canonizzato in un verbo, "to google". Pesa come una spada sulla testa di politici che citano fatti sbagliati o a sproposito, perché nei millisecondi necessari per "google", per compiere una ricerca nell’universo dello scibile, le loro panzane, i loro precedenti imbarazzanti e le loro contraddizioni saranno illuminati. Divora concorrenti o altre creature del mondo Internet, come quella YouTube, l’archivio video globale, che l’anno scorso inghiottì per 1 miliardo e 600 milioni. Un boccone per Brin e Page che hanno disponibili 8 miliardi di dollari pronta cassa, da spendere come e dove vogliono. Hanno rastrellato, in quelle loro pagine apparentemente umili e senza fronzoli, su fondo bianco, senza irritanti santini danzanti od odiosi "pop up" interstiziali, ormai l’80% dei 40 miliardi di dollari investiti su Internet dalla pubblicità e le grandi network televisive, ormai i piccoli dinosauri, tremano. Il popolo di Madison Avenue, che piazza gli annunci a caro prezzo per essere i primi nella lista degli inserzionisti, sa che la pubblcità sistemata lì, raggiunge esattamente i contatti, i clienti potenziali, e dai "click", dalle risposte degli utenti sa quanti l’abbiano vista davvero. L’opposto della dispendiosa forma di pubblicità a pioggia fatta dalle televisioni, dove si tenta di allagare un’intera nazione, nella speranza di trovare un assetato. E nel monastero del nuovo Dio, tutti 13 mila dipendenti devono, per contratto, dedicare almeno il 20% del proprio tempo a farsi venire idee nuove. Nacquero così la mappe geografiche e le immagini satellitari, la posta elettronica gratuita, l’idea folle e magnifica di catalogare e mettere a disposizione tutti i libri esistenti al mondo, che ha sollevato le reazioni inviperite di molti editori e, ora, nell’ultima e più luciferina delle tentazioni, l’offerta di 30 milioni di dollari al primo uomo che spedirà un robot sulla Luna con mezzi privati e rimanderà immagini continue del nostro satellite, naturalmente via Google. E infatti persino la Nasa, la sussiegosa ma squattrinata ex signora dello spazio, ha dovuto cercare l’alleanza di Brin e Page e firmare un accordo per utilizzare la loro tecnologia nella elaborazione dei dati. L’agenzia che portò l’America nello spazio, deve tornare sulla terra e inchinarsi a un immigrato russo e a un ex studente. Storia americana, dunque, dal garage di papà alla Luna. Storia della genialità di due giovani e della disponibilità di capitali di ventura per rendere possibili i loro progetti, sapendo che finanziando cento cavalli, basta che uno arrivi, per remunerare sontuosamente il rischio. Ed ennesima parabola della ambizione umana, quella che neppure la distruzione della Torre di Babele è mai riuscita fermare. Un classico della fantascienza raccontava, 40 anni or sono, di un nuovo supercomputer assoluto, che raccoglieva in sé tutta la conoscenza umana, attorno al quale capi di stato e leader religiosi si raccolsero per rivolgergli la domanda alla quale nessuno aveva mai saputo rispondere: ‟Dio, c’è?” gli chiesero trepidanti. ‟Sì, ADESSO c’è” rispose Lui. Oggi conosciamo anche il nome. Google.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …