Michele Serra: Il popolo in piazza. La malattia dell’odio

09 Ottobre 2007
Tra i ‟poteri forti” che tentano di condizionare l’autonomia dei giudici italiani, da ieri è possibile aggiungere la Piazza. O per lo meno quella minacciosa miniatura di Piazza che ha letteralmente occupato la scena del processo di Ascoli Piceno contro un giovane zingaro che, guidando ubriaco ha causato la morte di quattro ragazzi. Un incidente gravissimo, una colpa imperdonabile, una sentenza che ha applicato la legge al massimo grado di severità: pena più grave di quella richiesta dal pubblico ministero. Ma non sarebbe bastato l´ergastolo, non sarebbero bastati un ramo di quercia e una corda saponata fuori dal tribunale, ad accontentare il furibondo manipolo che ha urlato prima, durante e dopo il processo la sua voglia di linciaggio. ‟Vi bruceremo tutti”, ‟bastardo”, ‟ti prenderemo noi”, tra lo sventolio delle bandiere nere di Forza Nuova, minacce fisiche a incolpevoli amici e conoscenti dello zingaro sotto processo, giovanotti sovraeccitati che correvano per le strade cercando di dire a tutti i costi la loro ai giudici, alle telecamere e a chiunque, e telefonate di insulti alla Procura, nei giorni precedenti la sentenza, per intimare alla pubblica accusa di alzare il tiro e per esprimere tutto lo spregio possibile contro i giudici ‟fifoni”. Per far sentire allo Stato che il ‟popolo” non tollera più sentenze che vadano contro i suoi presunti bisogni: concetto, questo, che non echeggiava più in questo paese dai tempi delle Brigate rosse. L´intimidazione politica, evidentemente, non è solo una pessima abitudine dei potenti. Il processo di Ascoli si è svolto in un clima di intimidazione conclamata e anzi fieramente ostentata, con le strade adiacenti al tribunale presidiate da agitatori e da agitati che, in favore di telecamera, hanno organizzato una efficacissima rappresentazione di quello che ‟il popolo” farebbe ai criminali se solo potesse acchiapparli direttamente, senza la mal sopportata mediazione delle leggi. Vecchie storie, vecchie pulsioni: ma oggi colpisce molto duramente vederle ri-organizzate con tanta convinzione e successo, colpisce la facilità e la rapidità con la quale si scavalcano pudori e perfino tabù, un giudice che viene subissato di telefonate che cercano di convincerlo a calcare la mano contro un imputato non è una scena consueta, è uno smottamento vero e proprio del senso comune, un deragliamento di umori, di atteggiamento, di cultura diffusa che lascia presagire il peggio. Ovviamente, in tutto questo c´entra relativamente poco lo spinosissimo caso in questione, e perfino il dolore dei parenti rischia di passare in secondo piano. Dal padre di una delle vittime sono venute forse le uniche parole accettabili, rudi ma accettabili, e pronunciate con voce pacata, con l´evidente rispetto che una persona semplice ha nei confronti di un tribunale della Repubblica. Il resto, riportato dai telegiornali di ogni ordine e grado, è stato una gazzarra paurosa, con gli uomini della giustizia che parevano costretti a esibirsi su un palcoscenico improvvisamente minato, sotto lo sguardo di un pubblico ostile. Cupa e involontaria parodia di una giustizia esercitata «nel nome del popolo italiano», però non più dai soli giudici, non più secondo legge, non più nel rispetto dei diritti e delle garanzie di tutti, vittime e colpevoli. In fondo il terribile umore esploso ieri, dentro e attorno al tribunale di Ascoli, tratta i giudici alla stessa stregua dei politici, inutili intermediari, cavillosi perdigiorno che il ‟popolo” vuole scavalcare per esercitare direttamente il suo insindacabile giudizio. Nessuno degli urlatori di Ascoli, naturalmente vorrebbe essere giudicato da una folla inferocita piuttosto che dal peggiore dei magistrati. Ma è, questo, un clima nel quale il ragionamento non ha molte probabilità di attecchire. L´impressione è che l´urgenza del ‟farsi folla”, in fondo così televisiva, così gratificante soprattutto per chi fatica ad avere voce, trasformi lentamente ogni aspetto della vita civile in un´occasione di devastante emotività. Gridare ‟morte agli zingari” è molto più facile che istruire un processo. Questa facilità comincia ad apparire sempre più attraente a molti italiani stanchi delle complicazioni della politica, della giustizia e soprattutto della realtà

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …

La cattura

La cattura

di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia