Vittorio Zucconi: Bin Laden, i miei errori in Iraq

23 Ottobre 2007
Nell’ormai classico, ma sempre oscuro ping pong di segnali e messaggi che formano da anni il grottesco dialogo a distanza fra Washington e Osama Bin Laden, mentre Bush chiedeva altri 189,3 miliardi di dollari al Congresso per alimentare la guerra, la voce incorporea del profeta della jihad rispondeva con una ‟lettera al popolo iracheno”. In tono da Komintern stalinista, chiedendo ai fratelli islamisti di formare una sorta di ‟fronte popolare” in versione islamica, coalizzato contro gli americani.
Questa volta senza la propria faccia in video, come in quell’ultimo videoclip dove l’oratore esibiva una bizzarra barba nera da filodrammatica, ma sempre senza riferimenti temporali, l’audio consegnato alla network del Quatar, Al Jazeera, segnala qualcosa di nuovo, in mezzo alla solita litania di anatemi e di omelie. Assumendo che la registrazione sia autentica e la voce sia proprio la sua (come finora sono stati riconosciuti autentici tutti i messaggi di Osama), c’è un appello che in occidente si chiamerebbe ‟all’unità dei fedeli”, un invito a formare un fronte unito dei seguaci dell’Islam per battersi al fianco del popolo iracheno contro l’infedele occupante, ma evitando di cadere nel ta’assub, un’espressione che i traduttori leggono come "estremismo". L’estremismo serve soltanto a dividere i figli dell’Islam, a seminare discordia e ad aprire le porte delle schiere di martiri e combattenti alle spie e agli infiltrati e dunque a indebolire la guerra santa contro l’America satanica.
Come sempre, questi spettrali messaggi che sembrano arrivare da un altro modo che si incarna soltanto attraverso i blog jihadisti o la tv più seguita nel mondo arabo, vanno letti con attenzione e presi sul serio, non licenziati come farneticazioni di un profeta pazzo e sanguinario. E così sono letti a Washington, dove il nome di Osama Bin Laden rimane la ferita purulenta nel fianco della lunga ‟guerra al terrore”. Nell’ultimo video, Osama faceva appello ai pachistani, al popolo di quella nazione dove probabilità vuole che lui viva in questo momento, nel surrogato asiatico del Far West che è il Wajiristan, perché si scuotessero e si unissero alla battaglia. Ed è stato proprio in Pakistan che le bombe del terrorismo hanno trucidato più di 130 persone, in occasione del ritorno dell’esiliata Benazir Ali Bhutto.
Se oggi il rampollo rinnegato dei bin Laden fa sapere di essere inquieto per gli eccessi, così li chiama lui, dei seguaci di al Qaeda in Iraq, del loro fanatico estremismo che sta inimicando proprio quei clan e quelle tribù irachene che dovrebbero essere i compagni di strada, il sospetto che realmente gli iracheni, sciiti, sunniti o kurdi, siano stanchi dei missionari della jihad e vogliano regolarsi fra di loro i conti e gli scontri per spartirsi i resti dell’Iraq, deve essere arrivato anche nella tana di Osama e del suo ‟consigliori”, l’egiziano al Zawahiri. La nuova strategia adottata dal generale Petraeus, sull’esempio di quanto già avvenuto e poi abbandonato in Afghanistan, di dirottare la collera e la violenza etnica in Iraq contro al Qaeda per poi lasciarli alla loro guerra civili, può funzionare soltanto se le cellule dei terroristi d’importazione continuano i loro massacri indiscriminati, uccidendo più iracheni che americani. Per questo il messaggio di Osama viene letto come una classica versione in salsa jihadista del ‟fronte unito” di staliniana memoria contro lo straniero infedele e non musulmano, la tattica già usata con successo dai nazionalisti di ispirazione comunista in Asia. ‟E’ all’Islam e alla volontà di Dio che tutti i mussulmani devono aderire”.
Osama è inquieto per il formarsi di ‟correnti”, di ‟estremisti”, di fanatici che uccidono per il gusto del martirio e del sangue, dentro le schiere di al Qaeda, come Stalin temeva i trotskisti e Lenin gli estremisti, ‟malattia infantile del socialismo”? Sembra un paradosso che il leader riconosciuto del terrorismo che ha fatto strage indiscriminate di innocenti e dei propri fratelli nell’Islam, ora si preoccupi di eccessi ideologici, di frazionisti e di estremismi, ma nel corso di questi anni di vana caccia all’uomo, gli esperti più seri di anti terrorismo, quelli che non si fanno accecare dagli slogan e dalle formule sull’islamo-fascismo, hanno imparato a non sottovalutare l’intelligenza, il tempismo, il senso di questi punti e contrappunti che vengono dall’aldilà di Internet e dei video. Chi registra e tiene pronti questi frammenti di messaggi e manifesti diffusi come controcanto alle mosse di Washington e ai proclami di vittoria su al Qaeda che cominciavano a circolare, sa quello che fa, sa leggere il mercato dei media e dell’opinione. Ci sono segnali di difficoltà, forse di debolezza, in questo ultimo appello. Ma riportare il nome del ‟nemico pubblico numero uno” alla ribalta dell’America, mentre Bush chiede altri 189,3 miliardi di dollari, da aggiungere ai 600 miliardi già buttati, per continuare la guerra in Iraq e in Afghanistan mentre Osama resta libero di diffondere i suoi comunicati, rischia non di aiutare affatto il Presidente ad agitare il drappo delle paure, ma al contrario di stimolare il dubbio che l’ossessione di questa Casa Bianca con l’Iraq stia trasformando un ‟desesperado” in fuga nelle caverne dell’Himalaya in un qualcuno che parla, e forse si crede d’essere, il nuovo ‟piccolo padre” della rivoluzione islamista globale.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …