Michele Serra: Non solo piombo nella Milano degli anni Settanta

31 Ottobre 2007
Milano negli anni Settanta era una città allegra. Lo dico anche se so che non è vero, lo dico perché la memoria di quel decennio è ancora impiccata, trent’anni dopo, alle fotografie dei pistoleros di via De Amicis. Si dice "anni di piombo" e non rende l’idea di quanto fosse viva la città, non allegra (Milano lo è mai stata?) ma tremendamente viva. Differenza fondamentale rispetto a oggi: nelle famiglie non vigeva il cameratismo odierno tra genitori e figli, nessuna promiscuità tra generazioni. Le case appartenevano agli adulti, nessun adolescente si sarebbe mai sognato di poterci fare l’amore, e di conseguenza le strade erano piene di ragazzi, anche d’inverno, anche in quei giorni di pioggia fradicia e di luce livida che nel Duemila paiono scomparsi, come le serate di nebbia. Si usciva di casa per baciarsi in pace o anche solamente per rimanere insieme e per parlare. Noi studenti vivevamo per la strada, nei bar. I miei ricordi di quegli anni sono di fermate d’autobus, di camminate interminabili, di spiccioli contati per sapere se potevamo sederci al chiuso per un paio d’ore, e pagarci un caffè o una bibita. Vista dai marciapiedi, quella città era davvero di un altro secolo, di un altro evo. Non esistevano ristoranti cinesi e giapponesi e fusion, pochissime e solo in centro le vetrine glamour, zero locali d’architetto per happy-hour o aperitivo fichetto. Milano era una città di impiegati e di operai, di drogherie e ferramenta, mercerie, cartolerie, bar scuri e non lindi, con zaffate di periferia industriale che arrivavano ben dentro la cerchia dei Navigli, quasi per preannunciare i cortei operai del sabato che arrivavano a tingere di rosso le strade del centro. E le cime degli striscioni di fabbrica andavano a sfiorare i balconi dei palazzi dei ricchi. Il tessuto della ristorazione popolare era fatto soprattutto di trattorie (le trattorie toscane hanno sfamato generazioni di impiegati milanesi), di osterie pugliesi e piemontesi, di latterie con tavolini minuscoli che servivano uova fritte e formaggio. Le vie del centro erano piene di negozi e botteghe. Nel tratto di corso Magenta dove sono cresciuto (oggi costa un fantastilione a metro quadro) c’erano panetteria, drogheria, latteria, edicola, parrucchiere e fiorista nel giro di cinquanta metri, oggi più niente. La città non era "specializzata", non era facile distinguere i quartieri dove si lavorava e basta e quelli dove si dormiva e basta, l’uso promiscuo e abbastanza casuale degli spazi urbani rifletteva ancora la febbre disordinata della ricostruzione e l’assenza di piani regolatori, si poteva solamente intuire che se un fronte di case ottocentesche era interrotto da un (brutto) edificio moderno era per otturare la carie di una bomba di guerra. L’atmosfera era molto più prossima agli anni precedenti che a quelli a venire. Più somigliante, voglio dire, alla Milano del dopoguerra e del primo boom, quella di Jannacci, di Bianciardi e di Umberto Simonetta, delle canzoni della mala di Ornella Vanoni, del primo Gaber e dei primi rocker, di "Milanin Milanon", di Brecht al Piccolo, del cabaret non ancora ammazzato dalla televisione. Il design di Munari era ancora un esercizio intellettuale prima che industriale, l’onda del mutamento profondo, del ribaltone degli Ottanta (moda, pubblicità, desing) non era ancora immaginabile. Non erano lontanamente immaginabili corso Como e Fabrizio Corona. Si andava nei cinema d’essai (il Rubino di via Torino e l’Orchidea di via Terraggio erano aperti anche al mattino) per bigiare scuola. Ci siamo sorbiti cose bellissime ma anche cose da pazzi: cicli di cinema rumeno, Tarkovskij e Bergman, fantascienza di serie B e C. Risate, discussioni interminabili, litigi, riconciliazioni. Nel circuito "normale" spiccavano le ultime sale di terza visione, due film a quattrocento lire. In un enorme cinema dalle parti di Greco (credo fosse l’Abanella) vidi un horror in una sala vuota con volo di pipistrelli veri, in un altro cinema di Porta Romana (forse l’Habanera) mi sono goduto "Tamburi lontani" con Gary Cooper e una massaia seduta a fianco che cimava i fagiolini portati da casa. Era ancora aperto il formidabile, minuscolo teatro Gerolamo in piazza Beccaria. Ho ascoltato lì per la prima volta Ivan Della Mea e i fratelli Ciarchi, Gualtiero Bertelli, la Marini che veniva da Roma, la canzone politica. Si andava al Pierlombardo a sentire Parenti che faceva Testori, si riconoscevano nelle parole gli effluvi e le oscurità, così milanesi, delle periferie, i fianchi interminabili delle fabbriche. Stava per arrivare Kantor con la sua "Classe morta" in uno di quei pazzeschi teatrini di periferia disadorni, con panche durissime, riscaldati male, che poi sarebbero diventati (giustamente) parodia dell’"impegno", dello spirito vagamente punitivo e lugubre della Kultura naturalmente di sinistra: ma allora ci parevano bellissimi, nuovissimi, si risalivano le linee tranviarie fino a remoti capolinea per scovare gli spettacoli più stravaganti delle compagnie più sconnesse, la parola "decentramento" ci pareva il magico passepartout della democrazia di base, la cultura per tutti, la Scala che va in periferia e la periferia che va alla Scala. (Le uova che tiravano Capanna e i suoi davanti alla Scala non erano necessariamente "marce", anzi. Mi sono sempre chiesto: ma dove si comperano le uova marce da tirare alla prima della Scala? Io non ho mai visto un uovo marcio, a pensarci bene, in tutta la mia vita). Sono molto contento che Milano provi a ricordarsi meglio di quegli anni, e soprattutto che provi a festeggiarli. Non perché fossero migliori di questi, la nostalgia è la cosa più inutile e noiosa del mondo. Ma perché non meritano di passare agli archivi come l’ostaggio inerte dell’ideologia. Furono anni troppo disordinati, troppo agitati, troppo pieni di vita perché li si ricordi come una raffica di spari.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …