Umberto Galimberti: Halloween. Quel mondo pagano finito nel cristianesimo

31 Ottobre 2007
Morti viventi che si aggirano per le contrade e vivi impauriti che si coprono il volto con maschere terrorizzanti per spaventare i morti e tenerli lontani. Questa è Halloween, una festa pagana diffusa tra le popolazioni del Nord Europa a partire dal 4.000 a. C., riconvertita dal cristianesimo nel 600 d. C. nella festa dei Santi, con particolare riferimento ai cristiani uccisi in nome della fede, seguita dalla festa in onore dei morti. Due culture che si scontrano e si sovrappongono. Due temporalità che si contaminano e, nella contaminazione, confliggono. Halloween non è il carnevale, festa della sovrabbondanza prima della penuria quaresimale, Halloween mette in scena il gioco della vita e della morte in un tripudio beffardo e grottesco, perché se la vita è uno stupido scherzo, possiamo berci sopra oltre ogni misura. Per questo la modernità, che ancora abita la cultura cristiana, senza però più credere alla propria salvezza, mette in scena lo spettacolo della morte deridendola con ogni sorta di scherno. Nulla della tragedia greca che si consegna al destino, per crudele che sia. Nulla della pietas romana che onora il defunto e lo propizia. Halloween guarda lo spegnersi autunnale della natura come metafora della condizione umana, e reagisce a questa tristezza mettendo in scena una gioia macabra. Il cristianesimo, con la sua fede nella sopravvivenza, depotenzia la morte a semplice transito: da questo cielo e da questa terra colmi di dolore a "nuovi cieli e nuove terre" (Isaia). E così l’uomo non ha la stessa sorte di tutti i viventi nati dalla terra e dalla terra riassorbiti. Il suo tempo non è quello "ciclico" della natura che, per perpetuare la sua vita, esige la morte di tutti i viventi che ha generato, secondo l’ordine del tempo. La promessa della salvezza conferisce alla vita umana un "senso" che non ha la cadenza del ciclo della natura, per cui la morte perde il suo tratto beffardo e tragico. Un’altra vita si annuncia dopo quella che appare una fine. Non così per il mondo pagano che, non avendo speranze ultraterrene, sa di non poter evitare la propria sorte mortale, di fronte alla quale, come dice Sartre: «È la stessa cosa aver guidato popoli o essersi ubriacati in solitudine». Dal nulla venuto e al nulla destinato, il pagano, a differenza del cristiano, non chiede il senso della propria esistenza. Sapendosi evento della natura che, nella sua crudeltà innocente, conduce alla morte tutti coloro che ha generato, il pagano si affida a quella temporalità ciclica, propria della natura, che governa il nascere e il dissolversi di tutte le vite, secondo necessità. Una natura a un tempo generativa e distruttiva, copiosa di vita e di morte. Qui il paganesimo greco coglie l’essenza del tragico, dove l’innocenza della natura nel suo eccesso di vita e nella sua crudeltà confligge con la vita del singolo individuo che vuol durare. Dalla dimensione tragica il paganesimo greco fuoriesce non ipotizzando, come il cristiano, un mondo ultraterreno, ma percorrendo pazientemente le vie del sapere che consentono, come dice Ippocrate, di procrastinare la vita evitando almeno la morte evitabile. Non illudersi, quindi, affidandosi a cieche speranze, non rassegnarsi nella più tetra delle malinconie, ma conoscere per conservare la vita, onde evitare la morte che dovesse sopraggiungere per casualità o ignoranza. Non così il paganesimo nord-europeo che alla conoscenza ha preferito la rassegnazione, e ha reagito alla malinconia che l’accompagna col tripudio della festa notturna dei morti che ritornano per spaventare i vivi, e con i vivi che indossano teschi e cospargono il corpo di rigagnoli di sangue per esorcizzare nella finzione lo spettro della morte. In questa macabra festa, dove si sfida la morte col riso sarcastico di chi non può sfuggire a una sorte ineluttabile, si sospendono tutte le regole adottate per una buona conduzione della vita, si infrangono tutti i tabù, ci si concede a tutti gli eccessi, in quell’atmosfera pallida che il chiarore della luna concede, quasi a simulare il pallore della morte. Perché se il sole è vita, nella notte di Halloween, ciò che si celebra è il sole spento, quella luce nera e così poco rassicurante che presagisce il buio dell’oltretomba. I bambini, che ancora non percepiscono la propria morte, in quella notte, travestiti da streghe, zombie, fantasmi e vampiri, bussano a 13 porte gridando con tono minaccioso "Dolcetto o scherzetto" (Trick or treat, nella versione inglese), richiamo alla tradizione celtica che voleva si lasciassero dei dolci sulla tavola in segno di accoglienza per i defunti che in quella notte avessero fatto visita ai vivi. Ma perché bussare 13 porte se le case del cielo che presiedono il ritmo della natura sono 12 come i mesi dell’anno? Perché la tredicesima porta, come ci ricorda Jean Bodin nel suo trattato sulla Demonomania del 1580, è quella che annuncia: «Il crollo imminente dell’ordine, con mutamenti del ciclo delle stagioni, morie di bestiame, carestie imminenti, piogge di sangue e di pietre». Del resto, se io devo morire, perché non anche il mondo? Tutto è vano, tutto fu. E di fronte all’indifferenza della natura e all’insignificanza della vita umana, si faccia festa. Non la festa dionisiaca della cultura greca che è deflagrazione di un ordine in vista di un ordine nuovo (Dioniso e Apollo), ma beffardo esorcismo di una cupa rassegnazione, e quindi urlo che spezza ogni presunta armonia, o, come si legge nelle Bucoliche di Virgilio, «canto sfrenato che può tirar giù dal cielo anche la luna». Questo è Halloween. Il canto della disperazione. Perché la modernità recupera questo antico rito? Perché della cultura greca il nostro tempo ha perso la "giusta misura", e del cristianesimo la speranza di salvezza. Ciò che è rimasto è il motivo cristiano della denigrazione del mondo (Qui amat mundum non cognoscit Deum, diceva Sant’Agostino). Una denigrazione che si accompagna al piacere morboso e perverso della propria dissoluzione. E tutti sappiamo che nel cupio dissolvi c’è anche del gusto, l’unico forse che davvero assapora la tarda modernità. Halloween è solo una festa, che però richiama il sentimento del nostro tempo che fatica sempre più a dar senso alla vita e alla morte, e perciò celebra l’apoteosi del nulla.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …