Paolo Rumiz: La fine del Grande Freddo. Cade il confine tra Italia e Slovenia

09 Dicembre 2007
Nevica bagnato sull´ultima frontiera, sulle garitte da smantellare, le trincee del Carso e i bunker del Grande Freddo. L´inverno scende a raffiche dalle gole dell´Isonzo e dal varco di Caporetto, spazza i duty free già chiusi e gli autoporti semideserti. La notte del 20 dicembre finisce un mondo: l´Italia perde il suo ultimo confine di terra, quello con la Slovenia, sezione meridionale nel grande allargamento a Est dell´Europa di Maastricht, fra Baltico e Adriatico. Il muro del traffico commerciale è già stato sfondato tre anni fa, una notte di pioggia, a Capodanno, con concerti solenni e alzabandiera. Ora cade il muro degli uomini, e sarà un´apertura epocale. La più importante per l´Italia, perché avverrà sull´ex Cortina di ferro e il fronte di due conflitti mondiali. Tutto cambia. Terre di nessuno escono dal letargo di sessant´anni, pezzi di Carso off limits ridiventano percorribili, vecchie strade tornano importanti e spazi marginali si riscoprono al centro. La locanda El Bepon del signor Carlo Brumat a Gorizia, per esempio, che ebbe la porta d´ingresso sigillata dalla Cortina di ferro, ora potrà finalmente aprirlo, quell´uscio sull´altro mondo, e fare affari. Lo stesso per la sperduta trattoria di Botazzo, a due passi da Trieste, un posto da clandestini e romanzi di Le Carré, a un metro dalla sbarra, fra rocce a picco e sentieri nella foresta. Poco lontano, le vigne confinarie di Santa Barbara, un colle al limitare dell´Istria, hanno già dato vita a una "annessione" vegetale, saldandosi spontaneamente con le viti dell´altra parte.
A Gorizia la milizia slovena se n´è andata e nelle garitte non c´è più nessuno a controllare. E mentre sul lato italiano le istituzioni sembrano subire gli eventi, Lubiana ha già trasferito la macchina dei controlli verso la Croazia. ‟Ieri eravamo un rudere jugo-comunista - sembrano dirti con fierezza gli sloveni - e oggi siamo i guardiani della Nuova Europa”. Lungo la Ferrovia Transalpina - dove la rete divisoria è stata tolta da tempo - il confine di Gorizia s´è già spostato dalla piazza al bar della stazione, dieci metri più in là, e al posto della polizia hai una banconiera che tra un caffè e l´altro ti dà un´occhiata ai documenti. Gli sloveni ordinano ‟pivo” (birre) dal lato est, gli italiani chiedono ‟aperitivi” da ovest, e tra loro c´è appena lo spazio della macchina dell´espresso.
Subito fuori, i vecchi binari asburgici bagnati di pioggia puntano dritti a Nord verso l´Isonzo e Vienna, sulla linea che alla vigilia della Prima guerra mondiale fu costruita dall´Austria per ridare ossigeno al porto di Trieste. Un capolavoro di ingegneria, con grandiosi tunnel e viadotti, e il ponte in pietra a una sola arcata più grande del mondo. ‟Narrano che il costruttore l´abbia collaudato tenendosi la pistola alla tempia, ma erano altri tempi”, sorride Alberto Puhali, che studia ferrovie austro-ungariche da una vita e alla Transalpina ha dedicato una magnifica mostra a Gorizia. ‟Le ferrovie imperiali ridiventano strategiche: è il passato che ritorna, il segno di un mondo che per secoli non fu mai diviso”.
Nadja Veluscek, slovena, si stringe nel cappotto guardando il Monte Sabotino coperto di nubi. ‟È come se si fosse chiusa una parentesi, come se qualcuno dicesse: scusate, ci eravamo sbagliati, il Novecento è cancellato dai libri, ora si torna a quando si poteva viaggiare fino a Praga e Budapest senza passaporto”. Nadja ha passato una vita tra le due Gorizie: cinque, anche dieci passaggi al giorno. ‟Sono cinquant´anni che aspetto che cada, e quando accadrà farò festa grande. Ma un´ombra di timore è restata, alla vista della sbarra la mia macchina ha imparato a fermarsi da sola…”. Anche Dario Stasi, goriziano "di qua", ha aspettato una vita che il Muro cadesse, e per accelerare il disgelo s´è inventato una rivista bilingue; ma sa che il ‟salto a est” può inquietare qualcuno, e ‟la barriera delle memorie divise è destinata a rimanere a lungo”.
La gente ha ben stampato in mente quel giorno di sessant´anni fa, quando la frontiera fu tracciata alla buona, ‟come una pisada de can”. Giunse un manipolo di allegri ufficiali angloamericani che passarono con secchi di vernice bianca e pennelli tra le case, persino sui cimiteri. Sembrava una cosa irreale, lo scherzo di un buontempone, e invece calò come una mannaia sulla vita degli uomini, divenne muro reale, duro, fisico, che per anni si attraversò con paura e senso di colpa anche se non c´era niente da dichiarare. Era il segno della guerra perduta che solo qui si trasformava in barriera linguistica, politica e di sistema. L´Italia quasi non se ne accorse, perché la guerra pensava di averla vinta, e con gli Alleati preferiva festeggiare ballando il boogie-woogie.
Qualcuno mangiò subito la foglia, come la contessa Liduvska Hornik, la cui lussuosa residenza stava per finire ‟di là”. Amica di Churchill, proprietaria di enormi tenute in Africa, piombò come un falchetto tra i militari alleati e diede feste indimenticabili nella sua villa sull´Isonzo a Salcano. Risultato: in quell´unico punto la linea retta del confine si spezzò per contornare i muraglioni dell´augusta residenza. ‟Se guardi la carta, lì il confine sembra un pitone che ha ingoiato un topo intero”, ride Roberto Covaz, autore di una ricca antologia di racconti frontalieri, freschi di stampa, dal titolo Niente da dichiarare.
Ma per i più i giochi erano fatti. Molti finirono ‟di qua” avendo i parenti ‟di là”. Il fisico Carlo Rubbia rimase in Italia per pochi metri, e forse non sarebbe diventato Nobel se fosse cresciuto sotto il regime. A qualcuno capitò di finire intrappolato nella "No man´s land", come gli abitanti di Breg sul Collio dei grandi vigneti, che fino al 1974 ricevettero la chiamata al servizio militare sia da Roma sia da Belgrado. O lo sloveno Anton Furlan, che a Gorizia si ritrovò con la casa tra le due sbarre di confine, e per sessant´anni, ogni volta che doveva venire ‟di qua”, era costretto a tornare ‟di là” per avere dalla sua polizia il diritto di espatriare. Un viaggio alla Kafka, che si ripeteva in senso inverso a ogni rientro.
Più tardi le cose cambiarono e la frontiera divenne la più aperta di tutto l´Est, l´unico varco nella Cortina. Ma ora Natale manda tutto in archivio, anche il disgelo: la pacchia del commercio dei jeans venduti a montagne all´Est, il piccolo contrabbando, i sentieri dei "passeur", i clandestini aggrappati alla rete di Gorizia, l´abbaiare dei cani antidroga, il ‟niente da dichiarare”. Senza la divisione, che gusto ci avranno i bracconieri friulani della Val Resia a sparare ai camosci dell´altra parte? Dove va a finire quell´impagabile fregola da espatrio che invadeva gli italiani ansiosi di farsi spennare dai biscazzieri d´oltre frontiera? Come si nasconderanno i distillatori abusivi del Natisone, quando le loro valli non saranno più a fondo cieco? E, soprattutto, cosa faranno i partiti che hanno costruito sullo scontro etnico la loro rendita elettorale?
Crolla una politica, un immaginario, persino un folclore. ‟Alza la gamba Màriza, mòstrime la propùsniza, se la xe timbrada màndila, … a Nova Gòriza”, cantano i cabarettisti Boris Kobal e Maurizio Soldà alludendo "sessualmente" al lasciapassare per frontalieri - la mitica "propusnica", ultimo emblema del confine facile - sul quale venivano segnate le quantità di carne e sigarette comprate ‟dall´altra parte”. Un loro concerto il 21, al Palasport di Nova Gorica, celebrerà la fine di tutto, e i posti sono già prenotati da mesi.
Dura liberarsi del Secolo Breve. Perché è questo che finisce, il 20 dicembre, diciotto anni dopo la caduta del Muro di Berlino. Il vecchio centenario tira le cuoia, lasciando un´eredità di disastri: la cacciata degli istro-veneti dalle terre di Tito, le armerie clandestine di "Gladio", i Centomila di Redipuglia e i cimiteri austro-ungarici, le foibe e le violenze fasciste. Tutto lì, in pochi chilometri: incluse le sparatorie sulla frontiera con l´Italia, dove sedici anni fa iniziò - davanti alle telecamere di tutto il mondo - il crollo della Jugoslavia. ‟Macché Fronte occidentale, qui c´è molto di più”, dice lo storico Roberto Spazzali. ‟Una massa di eventi come dieci sbarchi in Normandia, concentrato in uno spazio infinitamente minore”.
Carso fra Redipuglia e il Castello di Duino, bora e nevischio. Tra il mare e la frontiera cinque chilometri appena. ‟Qui i nemici della Grande Guerra erano così vicini - spiega l´esploratore di trincee Alberto Todero - che gli italiani potevano capire che minestrone bollisse nelle cucine austriache”. Proprio qui le memorie del secolo si compattano nel modo più impressionante. Dietro la dolina dei Bersaglieri, sullo sterrato per Jamiano dove il confine e il fronte quasi coincidono, dormono, affogati nel cemento, i bunker d´acciaio costruiti negli anni Cinquanta contro un possibile attacco comunista. Oggi la linea di confronto è diventata etnica: così la rileggono anche gli sloveni, che di fronte a Redipuglia hanno appena sbattuto un monumento ai Caduti, una torre che rilegge Caporetto come vittoria mitteleuropea, e la Grande Guerra come alba della coscienza nazionale.
Ultima frontiera: luoghi pieni di storie, vite come romanzi. Il Castello di San Sergio, alto sul golfo di Trieste, dove Tito si affacciò con Nikita Kruscev per mostrare quella che doveva diventare la Settima repubblica jugoslava. Borst-Sant´Antonio, un paesino del Carso dove negli anni Ottanta furono trovati i primi clandestini morti (di freddo), e l´evento fu così sensazionale per quei tempi che i quattro (erano africani) vennero sepolti lì e tutto il paese prese parte al funerale con corone di fiori. Il rudere del campo per profughi istriani a Padriciano, cupo come una caserma, recintato come i Cpt di oggi, i malfamati centri di permanenza per stranieri illegali. ‟Qui nella vita di chiunque c´è tutto il Novecento”, dice Moreno Miorelli, un trentino che ha costruito quindici anni di eventi per ricucire memorie divise.
Castello di Gorizia, prime luci che si accendono nel tramonto verso le montagne e gran vista sulla topografia della separazione. Si domina tutto, come da un aereo in atterraggio. Di qua una testa senza corpo, una città rubata alle sue valli dopo mille anni di simbiosi assoluta. Di là il corpo rimasto senza testa: i villaggi, le foreste e i fiumi che - privati del loro mercato - dovettero inventarsi un polo alternativo, Nova Gorica, città-modello del comunismo, costruita dal nulla in mezzo alla campagna. In mezzo, la linea d´ombra, con altre storie. Il piccolo aeroporto dove nel ‘52 arrivò un giovane senatore del Massachusetts di nome John Kennedy per vedere il Muro. Merna, tagliata fuori dal suo cimitero, dove potevi entrare solo due volte l´anno, e poiché quelle erano le uniche occasioni per sapere cosa succedeva ‟di là”, davanti ai cari estinti era tutta una "ciàcola" di comari.
A Gorizia la storia dell´ultimo Muro coincide con gli sforzi per superarlo. Cominciò nell´agosto del ‘50, quando seimila jugoslavi, inferociti per la paralisi del mercato socialista, sfondarono le sbarre per comprare in Italia. Tornarono a casa brandendo scope, così tante che quella rimase per sempre ‟la domenica delle scope”, primo scricchiolio dell´intera Cortina di ferro. Erano tempi da Ragazzi della via Pàl, e per i più piccoli la prova d´ardimento era ricuperare il pallone caduto ‟dall´altra parte” senza farsi beccare dai soldati. Ma i soldati chiudevano un occhio, o calciavano oltre la sfera pur di avere un contatto con l´Altro. E che dire dell´ospedale psichiatrico italiano, che ha il muro sulla frontiera: i matti preferivano scappare in "Jugo" piuttosto che farsi prendere dai "normali" in patria, e in quella voglia di darsi alla macchia si innestò il germe della rivoluzione che liberò i reclusi nei manicomi d´Italia. Fu giusto così: poiché gli adulti erano "impazziti", la frontiera fu sfondata da matti e bambini.
‟Qualcuno fece di necessità virtù”, mi dicono alla trattoria Zovica dal buon profumo di zuppa di rape, e mostrano oltre la pioggia l´Isonzo che spumeggia fuori dalle gole, accanto al centro dei canoisti sloveni. Poiché dopo il ‘47 non si poteva più navigare ‟in giù”, verso il mare, agli sportivi ‟di là” non restò che andare ‟in su”. ‟Fecero tali muscoli - racconta l´oste, un tipo gigantesco come un Golem - che nel ‘59 due ragazzi di qua, Tone Prijon e Pavle Bone, vinsero il primo e il secondo posto al mondiale di Kayak. Non è straordinario?”.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …

La cattura

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di Salvo Palazzolo, Maurizio de Lucia