Michele Serra: Caso Luttazzi. Quel confine incerto tra offesa e libertà

11 Dicembre 2007
La domanda se esistano i famosi "limiti della satira", dettati da qualche autorità non ancora identificata oppure autoimposti, è tanto vecchia quanto irrisolta. Tanto che possiamo ben dire che no, non esistono limiti codificati o codificabili. Mutano e si spostano tanto quanto i "limiti del pudore", che assecondano oppure contraddicono le sensibilità sociali e individuali, i tabù di gruppo e di casta, le suscettibilità culturali, politiche e religiose. Ciò che diverte qualcuno offende altri. E rispetto a svariate e delicate faccende di interesse pubblico, l’eterno dibattito è tra chi ritiene improprio e volgare parlarne con i piedi nel piatto, e al contrario chi considera scandaloso e vigliacco non farlo... Saremmo, dunque, tipicamente nel campo del relativismo etico. Ognuno si arrangia e giudica, lungo il confine sempre labile (cioè: labile da sempre) che separa il dileggio dalla diffamazione, l’acutezza critica dall’oltraggio insopportabile. Lo slogan coniato da Sergio Staino quando, nel mezzo della chiesa sconsacrata del comunismo italiano, fondò Tango, era ‟chi si incazza è perduto”. Metteva l’accento sulla cattiva coscienza delle parti offese: la lingua batte dove il dente duole, e se si sente uno strillo significa che la lingua della satira ha colpito bene. Eppure, per consolidata esperienza, possiamo ben dire che un potere tetragono e furbo (Andreotti, per esempio) ha sempre saputo dare prova di una formidabile impermeabilità: non incazzandosi mai, lasciando dire. Viceversa dimostrarono la loro vulnerabilità alla satira, lamentandosene a voce troppo alta, uomini pubblici meno scafati o tolleranti ma anche, evidentemente, meno disposti a passare da furbi, vedi Enrico Berlinguer. Questo dimostra che la sola reazione dei bersagli, il loro abbozzare da uomini di mondo oppure reagire malamente, non basta, in sé, a valutare né l’efficacia né il valore della satira. C’è chi si imbufalisce per pura permalosità, e presunzione di impunità, e al contrario chi reagisce per amor proprio e perfino per ingenuità (categoria, quest’ultima, che non mi sentirei mai di classificare tra i difetti di alcuno, potente oppure no).
Il potere ha faccia di bronzo ma ha anche viscere e passione. Ha buoni avvocati ma nessuna garanzia sulle sentenze. E se sei un suo avversario, e vuoi batterti con lui, non è sagace e in fin dei conti neanche morale pretendere che il potere ti affronti con le mani legate dietro la schiena. E dunque, alle strette: il satirico - come ogni artista - è fondamentalmente solo con il suo talento e la sua responsabilità. Deve spesso guardarsi, non c’è dubbio, dalle censure, dalle querele, dalle viltà editoriali. Ma passare guai giudiziari o patire ostracismi non è - come dire - la parte fondamentale del suo lavoro. La parte fondamentale, e la più difficile, sta nel non farsi condizionare oppure dirottare dall’ossessione tipica del suo mestiere, che è fidarsi troppo dell’"effetto che fa". Molti (troppi) satirici basano la coscienza di sé, la propria autostima, sull’aura di martirio che gli tocca subire (o che riescono a procurarsi).
Il livello dello scandalo, però, non è sempre un buon giudice della forza della satira. Giovannino Guareschi, che fu un ottimo romanziere popolare e un notevolissimo autore di storie e vignette satiriche, finì in galera per un suo improvvido e maldestro attacco giornalistico a De Gasperi, e se ancora oggi tocca dolersene, non fu certo quel goffo infortunio a costruire la grandezza di Guareschi. Anzi: fu una vicenda che ne sottolineò inutilmente la faziosità, e ne mortificò il valore. Allo stesso modo, oggi, dispiace vedere un talento assoluto come Daniele Luttazzi alle prese con una sorta di sfida cieca, e all’ultimo sangue, non con i "limiti della satira", ma con una propria idea di intemerata purezza che finisce per essere ideologica e non più artistica. Con il faticoso corollario, ben noto nella conventicola dei satirici e dei comici, di considerare deboli, prone al potere e compromesse con il sistema tutte o quasi le altre voci in campo, forse colpevoli "di non farsi censurare" come dovrebbe, secondo questo schema tragicamente masochista, ogni persona "veramente libera". Ma le stimmate della purezza dovrebbero essere bandite da ogni dibattito, e in particolare da un dibattito sul linguaggio artistico, che è spurio, "sporco", contaminato e imperfetto come ogni intenzione umana quando si fa linguaggio. Ci sono eccellenti satirici che considerano la navigazione tra querele e polemiche come il classico incerto del mestiere, e non se ne lamentano più del dovuto non perché abbiano il culo al caldo, ma perché sanno che lavorando sul limite può anche capitare di finire in fuorigioco. E ce ne sono altri che pur essendo di potentissima presa, e antica popolarità (Altan, Vauro, Benni, Paolo Rossi, Dario Fo, Paolo Poli, per fare i primi nomi che mi vengono in mente) sono nelle condizioni di fare bilanci professionali con i lettori, e con se stessi, ben prima che con gli avvocati. Dire che l’osceno e il volgare sono categorie ampiamente diffuse soprattutto fuori dalla satira, per esempio nella programmazione "per famiglie" delle reti private e pubbliche, è dire la pura verità. Ma questa verità non può mai costituire un alibi per il satirico: il solo fatto che egli maneggi opinioni e linguaggi di frontiera, mai benedetti dal conformismo, spesso disturbanti per il pubblico "benpensante", gli impone un rigore particolare, un continuo vaglio della precisione e della difendibilità del suo lavoro. Non parlo, sia ben chiaro, della difendibilità giudiziaria: quella è troppo esposta all’arbitrio altrui. Parlo della difendibilità semantica, della caratura artistica e del calibro delle parole. Dei conti con se stessi, insomma... Il satirico mette continuamente le mani nello scandalo e nel dolore, scandalo suo e scandalo altrui, dolore suo e dolore altrui. Parla di uomini, di persone, ne scruta i tratti e li deforma, lavora sull’errore, sulla frustrazione, sulla degenerazione (comica) della figura umana. Deve avere l’umiltà di sapere che alla massima efficacia spesso corrisponde il massimo rischio, che è per questo che il pubblico lo ama e lo cerca, ma è anche per questo che a volte lo aizza al di fuori della misura necessaria: che è una misura artistica, interna alla fatica dell’artista, e deve rimanere al riparo dei fischi e degli applausi. Per questo penso che in democrazia, sia pure una democrazia a bassa tensione come la nostra, essere censurati è per metà un sopruso subito, per metà un errore commesso.
So che è una verità spiacevole da dire, perché rischia di sembrare a carico di chi subisce censura. Ma è una verità ben conosciuta da chi fa satira: gli errori dei quali ci si pente davvero, a conti fatti, sono quasi sempre errori noti solo a chi li ha commessi, sono errori di bersaglio oppure di tono, sono omissioni o al contrario facili accanimenti. I veri "limiti della satira" sono dunque i limiti del satirico, e quasi mai finiscono nelle cronache giudiziarie o nelle pagine dei giornali.

Michele Serra

Michele Serra Errante è nato a Roma nel 1954 ed è cresciuto a Milano. Ha cominciato a scrivere a vent’anni e non ha mai fatto altro per guadagnarsi da vivere. …