Vittorio Zucconi: Il politico s’inchina al contadino. L’Iowa è un rito di espiazione

10 Gennaio 2008
Nella Siberia americana stretta fra i due grandi fiumi della prateria, il Mississippi e il Missouri, sotto sferzate che scendono senza ostacoli dal Polo Nord fino a meno 22 gradi centigradi e in pochi secondi trasformano lo sterco degli infiniti maiali in rocce, gli Stati Uniti d’America cominciano ormai da 36 anni la grande rappresentazione della loro democrazia presidenziale. L’Iowa, lo stato degli indiani «sonnacchiosi», come pare vada tradotto il loro nome ancestrale di Ioway, inaugura la stagione elettorale più solenne e più importante per l’America e per il mondo che nel novembre di ogni quadriennio elegge un presidente, con il rito antico, stravagante e tenero dei «caucus», dei consigli dei cittadini abbastanza coraggiosi da sfidare il crudele gennaio della grandi pianure per scegliere, ironicamente, un candidato che non conquisterà la corona. Un solo vincitore, nel palmares ormai quasi quarantennale di questi caucus (anch’essa parola di probabile origine indiana, per «riunione, consiglio, suggerimento») è arrivato alla Casa Bianca, e non ebbe molta fortuna come capo dello stato. Fu il non rimpianto James «Jimmy» Earl Carter, nel 1976. In quella bisecolare e inimitabile "monarchia elettiva" che è la repubblica federale degli Stati Uniti d’America, questo Iowa, uno stato nel quale normalmente il viaggiatore si ferma soltanto se gli si guasta l’automobile o se l’aereo deve fare un atterraggio di emergenza, diviene il primo sguardo dalla serratura della storia che tutta la nazione, tutti i media, tutto il mondo, guardano con occhio fisso, pur sapendo che non rivelerà molto. I caucus della Prateria «sono come i bikini», scrisse il grande John Apple del New York Times, veterano di dodici presidenziali, forse per nostalgia inconscia di climi più temperati: «svelano moltissime cose, meno quelle più importanti». Ma proprio come i maliziosi costumini da bagno, così l’opinione dei forse 100 mila «Iowans», su tre milioni di coraggiosi residenti e 16 milioni di maiali (oltre sette suini per ogni umano), pesa perché dopo l’inverno delle chiacchiere, dei sondaggi, delle fantasticherie fa vedere finalmente qualcosa, anche se non tutto. È «first in the nation», il primo vero appuntamento con gli elettori, e neppure in questo 2008 che non ha presidenti o vice presidenti in corsa, dunque non ha solidi favoriti, e ha visto tutti gli altri stati sgomitarsi per scavalcarsi, ha perduto la primazia e quindi l’interesse spasmodico. Molto più determinanti saranno le primarie vere dell’8 gennaio prossimo, in un altro "scatolone di neve e gelo", il New Hampshire. Ma la prima volta non si scorda mai, e lo stato che galleggia sull’oceano del più fertile suolo alluvionale del mondo tra Missouri e Mississipi, resta il primo. Da qui devono passare i superbi e inchinarsi. Per una terra che nessun piede di uomo bianco aveva calpestato fino alla spedizione di Lewis e Clark nel 1803, e che non sarebbe divenuta parte dell’Unione fino al 1846, tanta frenetica attenzione è insieme difesa con accanimento e guardata con cinica ironia contadina, ben sapendo i laboriosi, bianchissimi (tedeschi, irlandesi e scandinavi di ceppo, con appena il 2,3% di pelli scure fra loro) gentilissimi abitanti che la sera del 3 gennaio, a voti contati e servizi giornalistici inviati, le compagnie di politicanti e di reporter scompariranno come bagnanti al primo acquazzone d’agosto, lasciandoli soli fino all’inverno del 2012. Altrettanto bene sanno che il loro bizzarro modo di votare, non attraverso schede nelle urne, ma attraverso riunioni in case private, chiese, refettori, scuole, cinema, qualsiasi luogo abbastanza ampio e soprattutto riscaldato, coagulandosi in gruppetti da contare sotto il cartello con il nome dell’uomo o della donna preferiti, somiglia più a una comitiva di giapponesi a Parigi sotto le insegne dell’agenzia di viaggio. Ma così lo vogliono e così lo hanno difeso da ogni tentativo di cambiarlo. Lo vogliono così perché nella piattezza asfissiante di questo stato, che su una superficie pari a circa la metà dell’Italia ha un dislivello medio di appena 335 metri, nella anomalia del suo dipendere ancora massicciamente da allevamento e agricoltura («Lo stato del granturco più alto» è uno dei suoi modesti motti ufficiali, sui maiali si preferisce sorvolare), in una nazione dove la terra non fa più economia, c’è un orgoglio da "pionieri fondatori" ormai perduto altrove. Unito a una malizia diffidente classica del contadino. I caucus dell’Iowa non sono una campagna elettorale, sono una tortura legale, un calvario per ambiziosi. Le 99 contee nelle quali è diviso, con distanze tra fattorie, villaggi, incroci stradali a perpendicolo e binari tirati con la riga misurate in centinaia di chilometri, devono essere visitate tutte, e più volte, da chiunque voglia convincere gli elettori a uscire nei meno 14 gradi previsti per la sera del 2 gennaio, avviare il pick-up incrostato di fango e di sterco marmorizzato e avviarsi, dopo ore di guida, ai concentramenti dei voti. Jimmy Carter, che nell’Iowa trovò la vittoria e lo slancio per sorprendere un Partito democratico che non lo avrebbe voluto, calcolò, in un momento di confidenza coi giornalisti ancor più devastati di lui, di avere accarezzato almeno 70 mila neonati, assaggiato 15 mila torte di mele e ispezionato 750 porcilaie. Un calcolo che soltanto un ingegnere, e per di più nucleare come lui, avrebbe potuto azzardare credibilmente. Questo è il penultimo terreno - l’ultimo sarà il New Hampshire la prossima settimana - dove ancora si possa, e si debba fare la politica "al dettaglio", la campagna porta a porta, mano a mano, neonato per neonato, prima che l’uragano dei soldi si scateni dai canali televisivi e il vantaggio passi a chi ha più milioni buttare in spot e comizi oceanici costa a costa, a chi sa recitare meglio la parte del presidente nel reality show della teledemocrazia. Ma nell’Iowa, il contadino vuol sapere e il suo futuro barone deve farsi toccare, vedere, annusare, riportando la «strategeria» nazionale, come diceva «W» Bush in uno dei suoi più fenomenali sfondoni, al rapporto umano e ai piccoli numeri. Neppure il paradosso di uno stato che non rappresenta affatto demograficamente, economicamente, sociologicamente un campione accettabile della nazione, essendo così bianco, così poco urbano, così poco melting pot, scoraggia i candidati. Più che la prima elezione, in quel processo che quest’anno misericordiosamente dovrebbe finire già il 5 febbrario, quando 20 grandi stati voteranno accorpati decidendo chi sarà, fra la urticante Hillary e il balsamico Obama per i democratici, o fra i capponi repubblicani che si beccano tra loro, il valoroso McCain, l’isterico Giuliani, il plastificato Romney, il devoto Huckabee, lo svanito Thompson, il "nominato" finale, l’Iowa è un rito di espiazione, un giorno delle ceneri che i tromboni e ora anche le trombone devono vivere non per dimostrarsi migliori, più meritevoli o semplicemente più credibili e meno artefatti dei concorrenti. Nel gelo della prateria, nello stato dello Iowa che diede la vita a uno dei più grandi interpreti del mito americano, John Wayne, e a uno dei peggiori presidenti, Herbert Hoover, si celebra ogni quattro anni la breve, effimera, deliziosa vendetta dell’onesto porcaro sul disonesto piazzista della politica.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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