Vittorio Zucconi: Fischer, il genio degli scacchi che sconfisse l’Urss

21 Gennaio 2008
La sua arma era la memoria. Assoluta. Il suo segreto era la solitudine. Assoluta. La sua morte è stata la follia. Assoluta. Robert James Fischer, "Bobby" per la storia, il genio tragico che vinse per l’America la Guerra Fredda sulle 64 caselle degli scacchi contro Boris Spassky è morto - e sarà magari una coincidenza - a 64 anni, di insufficienza renale ieri in Islanda, dove si era autoesiliato per vivere dietro il proprio enorme barbone. Aveva rifiutato di farsi ricoverare in ospedale perché era certo che agenti di Washington e del Mossad israeliano lo avrebbero ammazzato. L’unica donna che lo avesse mai amato, la giapponese Miyoko Watai, era arrivata a Reykjavik quando lui aveva già perduto conoscenza. Era il 1972, l’anno dell’agonia americana in Vietnam, della rielezione di Nixon alla Casa Bianca, del primo tentativo di «distensione» fra Urss e Usa, quando il ragazzino cresciuto giocando nei circoli dilettanti di Brooklyn e sulle scacchiere di pietra nella Washington Square del Village, ma soprattutto da solo, per ore e ore nella propria stanza contro sé stesso, si sedette di fronte al campione mondiale Boris Spassky, il maestro di Leningrado che da tre anni deteneva in titolo. Per l’orrore dei puristi, e il divertimento del pubblico, Bobby trasformò un compunto, quasi religioso evento, in un melodramma degno di un Mohammed Ali o di una Maria Callas. Fra sceneggiate, proteste, strepiti, minacce di fuga, denunce, Fischer, che aveva platealmente e deliberatamente mancato la cerimonia di apertura del mondiale, riuscì a scuotere il grande Spassky e a sconfiggerlo per 12 vittorie contro 8 e una patta. I secondi di Spassky e i maestri che analizzarono poi le mosse una per una conclusero che Spassky, partito subito da due a zero in proprio favore, era caduto in errori spiegabili soltanto con il fatto che l’avversario gli aveva fatto saltare i nervi. In uno dei match cardine, dopo che tutti gli esperti russi che affiancavano Boris avevano convenuto che la situazione era di inevitabile pareggio, Bobby rimase sveglio tutta la notte a studiare la scacchiera. All’alba rifiuto il pari, indusse Spassky all’errore e vinse. Era dal 1949, l’anno di inizio effettivo della Guerra Fredda quando Stalin aveva fatto esplodere la sua prima bomba atomica per la costernazione degli americani, che i sovietici dominavano il mondo del più raffinato e intellettuale dei giochi, gli scacchi. Un dominio che, insieme con i primi lanci nello spazio, Gagarin, le cagnette immolate, il riarmo, le promesse kruscioviane di «seppellire gli Stati Uniti», sembrava manifestare concretamente la superiorità intellettuale e tecnologica del Socialismo Reale. Quel giorno di settembre di 36 anni or sono, l’America applaudì come una liberazione quella vittoria ma perse per sempre quel giovanotto neppure trentenne, magrolino e miope, figlio di un fisico tedesco emigrato a Chicago e di un’infermiera dell’Illinois che lo dovette crescere e mantenere a Brooklyn quando il padre la scaricò insieme con il piccolo Bobby, a due anni. Nella estrema frontiera dei quozienti di intelligenze raggiunta soltanto da personaggi come Einstein, della memoria assoluta, della arroganza infinita del divo timido, Bobby Fischer si perdette. La sua mente costruita per calcolare le variazioni e le combinazioni possibile di pedoni, torri, regine e re arrivando a ridicolizzare il primo «computer scacchista» costruito dal Mit di Boston, si rivoltò contro di lui, come in una malattia autoimmunitaria del genio, cacciandolo in un labirinto di paranoia dal quale neppure lui avrebbe saputo più uscire. Si convinse di essere perseguitato dal governo americano, nonostante il Congresso avesse votato addirittura una legge «ad personam» per riconoscerlo come unico vero campione del mondo di scacchi. Sprofondò nel «complottismo» più torvo, vedendo la mano dello «sporco ebreo» dietro ogni catastrofe della storia e dietro ogni sua avversità. Trasformato in un barbone nel senso autentico della parola, fu addirittura arrestato e incarcerato in California dietro l’accusa di rapina a una banca, per scambio di persona, e uscì, ovviamente scagionato, spiegando di essere stato «torturato» in cella da aguzzini della Cia e del «sionismo internazionale». Era, e rimase fino all’ultimo, un gigante degli scacchi come provò nel 1992 quando riemerse dal buio per una rivincita contro Boris Spassky disputata in Jugoslavia, violando l’embargo ordinato dal Dipartimento di Stato. Vinse di nuovo, incassò 3 milioni e mezzo di dollari, ma divenne persona non grata negli Stati Uniti. Un apolide. Il suo passaporto fu annullato da Washington e sequestrato dalle autorità giapponesi quando tentò di sbarcare a Tokyo per incontrare Miyoko, una scacchista che aveva conosciuto in Yugoslavia, nel 2004. Soltanto l’Islanda, ancora grata per l’immensa pubblicità, accettò di accoglierlo legalmente. Era malato di reni, ma rifiutava cure mediche, perché non credeva nella medicina occidentale. Quando le due Torri erano crollate a Manhattan aveva applaudito, salutando la rivincita del mondo contro l’odiata America, quella nazione che lui aveva aiutato a vincere il duello contro l’Unione Sovietica sulla scacchiera. Se davvero sapessimo che cosa è la pazzia, potremmo dire che Bobby Fischer era pazzo. Ma lui avrebbe riso di noi, come rideva di sé stesso quando si autosconfiggeva, nella stanzetta di Brooklyn giocando da solo.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …