Vittorio Zucconi: Al congresso il mesto addio di George W. Bush

01 Febbraio 2008
È finito con un sospiro, non con un rombo, secondo la profezia del poeta T. S Elliot, il mondo di George W. Bush arrivato al suo ultimo, fiacco "discorso sullo stato dell’Unione" che ha immalinconito anche i fan superstiti. È stato il discorso di chi ha più nulla da dire a una nazione che ha smesso di ascoltarlo e guarda oltre. Il presidente che sette anni or sono, nel suo momento più alto, si era arrampicato sull’ossario fumante delle Torri per offrire a una nazione sbigottita, e a un mondo solidale, la propria spalla, ha salutato l’America promettendo di ridurre un poco le spese pubbliche inutili, il ‟barile del lardo”. Dall’esportazione della democrazia ovunque, alla limitazione delle leggine di spesa, non è proprio quella parabola epica che si era ripromesso. La modestia dell’uomo, mai un ispiratore di folle, è riaffiorata in questo "passo d’addio" che un commentatore pur equilibrato, Tim Russert della Nbc, ha definito ‟il discorso minimalista di un uomo che non ha più niente da dire”. Almeno nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, il Presidente, come seppe fare Reagan nel 1988, dovrebbe sapersi alzarsi sopra l’arringa autodifensiva e le polemiche con il Parlamento spendaccione e promettere di mettere il veto a 18 miliardi di spese. Cifra che in una "finanziaria" federale da duemila e novecento miliardi (2008), è niente. Non sono queste tardive briciole di frugalità fiscale, a essere quell’eredità storica che George Bush il Giovane sa di lasciare al proprio paese e al mondo. La sua "legacy", la sua eredità è quella guerra in Iraq, più che in Afghanistan, che ha difeso per 35 dei 54 minuti del discorso, è la decisione di rompere, con l’invasione di un Paese lontano che non aveva mai direttamente aggredito né minacciato gli Stati Uniti, il tabù della ‟guerra preventiva”, delle invasioni lanciata a propria discrezione e scelta. Può darsi che realmente le cose vadano meglio in Iraq, - anche se proprio ieri cinque soldati sono morti in un agguato - da quando l’abile generale Petraeus evita di esporre i propri uomini agli scontri diretti, preferendo compiti di ‟appoggio e protezione” agli iracheni, la nuova parola d’ordine. Ma se dopo sette anni di guerra in Afghanistan, e cinque in Iraq, quasi 4 mila soldati americani perduti, 30 mila gravemente feriti, centinaia di migliaia di iracheni uccisi e quasi mille miliardi di dollari consumati, il grande progetto di bonificare il mondo islamico si riduce a vantare un’attenuazione della febbre, è difficile immaginare che Bush avrebbe potuto salutare l’America con proclami di vittoria. L’applauso più sonoro della camere unite ad ascoltarlo, mentre il popolo dei telespettatori preferiva altri canali scatenandosi nello zapping, è venuto quando ha annunciato il richiamo di 20 mila entro l’estate. Persino uno dei suoi tifosi più "ultras", Fred Barnes sull’organo ufficiale dei neo-con, il Weekly Standard, ha dovuto ammettere mestamente che ‟non è stato certamente uno dei suoi discorsi più grandi”. Le telecamere preferivano mirare su quell’uomo e quella donna, Hillary e Barack, che dovranno, se saranno loro, ripulire la stalla lasciata dal grande liberatore mancato. Lui, il ragazzone texano, se ne è andato dopo sette anni firmando dozzine di autografi a parlamentari, familiari e portaborse nell’aula, come una rock star invecchiata alla fine del suo fiacco concerto d’addio.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …