Umberto Galimberti: Perché ci appassiona il delitto di famiglia

12 Febbraio 2008

Novi Ligure, Cogne, Erba, Garlasco, Perugia. La geografia della spettacolarizzazione del crimine. Non quello di portata sociale come la mafia, la ’ndrangheta, la camorra che lascia tutti più o meno indifferenti, ma quello circoscritto nell’ambito delle relazioni familiari è il crimine che appassiona la gente e, cinicamente, anche giornali e tivù alla ricerca affannosa di audience.
Questo ci dice che il nostro sentimento non ha ancora oltrepassato le mura di casa, non è ancora diventato sentimento civico, ma è rimasto confinato in quell’ambito ristretto e anche un po’ primitivo che è il delitto di famiglia, dove la violenza e la sessualità, l’amore e l’odio intrecciano i loro cupi legami.
Le morti sul lavoro non appassionano, i morti sulle strade sono dati per scontati, i morti per malasanità fatti rientrare nelle statistiche, i morti per droga confinati senza pietà nel ghetto dei disperati. Le vite infrante di bambine e bambini abusati sono coperte da un disgustoso silenzio, quelle precarie degli immigrati che muoiono in mare non destano il minimo sussulto, così come le vite randagie dei senzatetto che talvolta si lasciano morire assiderati sulle panchine delle nostre città. Solo le morti in famiglia o tra famiglie suscitano quello spasmodico seguito nelle aule dei tribunali, dove la gente si accalca alle cinque del mattino per potervi assistere, e nelle trasmissioni televisive che finiscono per essere più seguite delle fiction di successo, dove non è la pietà per i morti o per i sopravvissuti a tenere incollata la gente allo schermo, ma il gusto cupo della trama macabra.
Questo la dice lunga sul sottosuolo della nostra anima e sulle passioni che in quel sottosuolo sonnecchiano, perché se gli attori reali di quei crimini quando appaiono in televisione diventano, per la magia dello schermo, i rappresentanti delle nostre passioni che in loro possono rispecchiarsi, allora c’è da chiedersi quanto il nostro amore si è fuso e combinato con l’odio, quanto la nostra sessualità si è contaminata con l’aggressività, quanto il nostro sentimento si è inabissato nel risentimento che, proibendosi di esplodere nella realtà, trova un canale di sfogo nella rappresentazione televisiva dove, col pretesto del crimine che appassiona, esperti di ogni tipo vanno a frugare nel fondo della nostra anima mescolando le acque già torbide delle nostre passioni, anche le più truci, inespresse.
Questo scavo, che potremmo definire un’analisi selvaggia su vasta scala, produce quei fenomeni di transfert, di identificazione e di idealizzazione che sommergono gli attori dei crimini di una quantità inimmaginabile di lettere di amore o di odio a bassa definizione, dove il messaggio che si trasmette è una sorta di idolatria di chi ha avuto il coraggio di fare quel che ciascuno di noi in fondo in fondo, senza dirselo esplicitamente, ignorandolo persino, o senza volerlo ammettere, vorrebbe fare col proprio vicino di casa, col proprio figlio, con la propria moglie o col proprio marito, col proprio genitore senza averne il coraggio.
Se poi gli attori dei crimini sono telegenici o belli, se sono giovani e, nell’apatia del loro cuore, sono capaci di reggere e contrastare le accuse, allora ci si divide tra innocentisti e colpevolisti, secondo le regole del tifo a cui ci ha abituato l’overdose di calcio trasmesso in tivù.
Le prove non contano. Contano le impressioni, che sono poi i moti d’animo più primitivi perché immediati e non disturbati dall’uso della ragione che fatica a farsi largo là dove la fascinazione ha già fatto il suo lavoro.
E purtroppo la televisione è il mondo della fascinazione dove lo slogan, la frase a effetto, il dettato ipnotico sono le performance richieste per accedervi e per seppellire il ragionamento che la televisione aborre nella fretta dei suoi tempi, nella velocità degli enunciati, nella rapida successione delle immagini, perché il suo scopo è colpire lo spettatore, impressionarlo, se possibile scioccarlo, in pratica ottundergli l’uso della ragione, fino a rendergliela in ogni suo aspetto desueta. Sotto questo profilo la televisione non emancipa perché obnubila.
E perciò il torbido, che ogni delitto di famiglia porta con sé, è il suo programma preferito. E qui il circolo macabro si chiude. Le nostre passioni più truci che sonnecchiano nel nostro inconscio trovano negli attori dei crimini di famiglia la loro espressione.
La televisione, mettendole in mostra e raccontandocele a più riprese e da più punti di vista ce le fa conoscere, ma come passioni di altri e non come nostre passioni. Così facendo ci fa dono di una troppo facile innocenza che ci gratifica e non ci fa fare un passo verso la ricognizione di noi, perché la riflessione non è proprio una caratteristica della televisione. Anzi.
E così, abbarbicati a una storia che ci appassiona perché è nostra, ma che ci viene illustrata come una storia d’altri, finiamo col non riconoscere che anche il nostro amore è orlato di odio, persino l’amore materno, persino quello per i nostri genitori, per i nostri vicini di casa, per i nostri amici, per cui basta una leggera alterazione per trovarci al di là dello schermo, questa volta guardati, dopo aver a lungo seguito con interesse storie di altri che in realtà descrivevano quanto di torbido si agita in noi. E proprio nessuno ci aveva avvertito, tanto meno la televisione, che la soglia che separa la misura dall’eccesso è estremamente sottile, tenue, fragile, come neppure lontanamente siamo soliti sospettare.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …