Umberto Galimberti: I bambini e la giustizia

25 Marzo 2008
Quante volte ci capita di sentire un bambino gridare o dire fra i denti: ‟Non è giusto”. Quante volte egli prova il sentimento di essere giudicato colpevole di un’azione che non ha commesso, o crede di non aver commesso, o non ritiene cattiva. E questo non capita solo ai bambini, ma anche agli adulti ogni volta che sentono l’ingiustizia di un’esclusione non meritata, di un risarcimento non ottenuto, di una prova non superata, di un licenziamento non giustificato, di un abuso subìto.
E ancora, siamo davvero convinti che la giustizia debba essere uguale per tutti, o riteniamo che debba essere diversa a secondo delle circostanze e soprattutto per ciascuno di noi, che sempre disponiamo di buoni e talvolta validi motivi per non sentirci inclusi nella regola che ci prevede comunque oggettivamente colpevoli? Ci sono davvero due giustizie diverse: una valida per tutti e una per ogni singolo individuo? A questo rispondono le attenuanti che possono ridurre anche sensibilmente la pena? Ma la giustizia che ogni individuo si immagina "giusta" e che, come un vestito, si "aggiusta" addosso, non rischia di provocare ulteriori conflitti e alla fine di creare ingiustizia?. E allora: che cos’è giusto?
A questa serie di interrogativi rispondono due libri di facile e avvincente lettura. Il primo è di Gherardo Colombo, Sulle regole, il secondo del filosofo francese Jean-Luc Nancy, Il giusto e l’ingiusto. Li accomuna la persuasione che la giustizia non è solo e forse non è tanto una faccenda di tribunali, ma un processo culturale dal passo lento, che può affermarsi solo attraverso processi educativi che sappiano coinvolgere l’intera società a partire dai primi anni di socializzazione che, lo sappiano o meno i professori, incominciano con la frequentazione della scuola. Per questa ragione Gherardo Colombo ha abbandonato la sua carica di magistrato e di consigliere presso la Corte di Cassazione per accettare tutti gli inviti che, numerosissimi, gli provenivano dalle scuole, allo scopo di sensibilizzare i giovani, che sono poi gli adulti di domani, al bisogno di legalità e di regole condivise, senza le quali, come ci ricorda anche Platone nella Repubblica: ‟neppure una banda di criminali può raggiungere il suo scopo”.
Per la stessa ragione Jean-Luc Nancy, una delle figure più significative dello scenario filosofico contemporaneo, ha dedicato una serie di incontri pubblici nelle scuole elementari e medie per spiegare che cos’è la giustizia, a partire dai conflitti in cui i ragazzi vengono a trovarsi tra loro, e poi con i genitori e con gli insegnanti.
Per prima cosa, scrive Gherardo Colombo, occorre distinguere la legge dalla giustizia. Nella storia erano leggi quelle che prevedevano la schiavitù, quelle che discriminavano gli ebrei, quelle che ancora prevedono la pena di morte, così come lo sono quelle che la escludono, che garantiscono la libertà personale e l’uguaglianza nella soddisfazione dei bisogni primari. Stando così le cose l’osservanza della legge non dice ancora nulla sul concetto di giustizia, come ben dimostra il sistema italiano che era legale tanto prima quanto dopo la promulgazione e l’abolizione delle leggi razziali, anche se la differenza è evidente.
Per avvicinarci al concetto di giustizia è allora necessario uscire dai tribunali dove si applica la legge ed entrare nella società per vedere se la sua struttura, al di là degli enunciati di principio, è ancora verticale o orizzontale.
Gherardo Colombo chiama "verticale" quella società che, pur accettando in linea di principio l’uguaglianza dei diritti, di fatto si comporta sul modello delle specie animali dove vige la legge del più forte, per cui i più potenti, i più attrezzati, i più capaci e, perché no, i più furbi sono meritevoli di maggior considerazione rispetto a coloro che non stanno al passo, perché così vuole la natura che, selezionando i più idonei, garantisce il successo della specie.
Ne consegue che la persona non ha valore in sé, ma acquista o perde importanza a secondo della sua rilevanza sociale, e chi condivide questo punto di vista pensa che la giustizia consista nel promuovere e nel tutelare le gerarchie, nel dare dignità ai privilegi, e nel rubricare "polvere della storia", come vuole l’espressione di Hegel, tutti gli altri, a partire, come documenta la storia, dalle donne, dagli schiavi, dai neri, dagli appartenenti ad altre etnie, e oggi i poveri, gli emarginati, coloro che per condizioni economiche o culturali non ce la fanno a emergere.
La società "orizzontale" che segue il principio aristotelico: ‟L’uomo ingiusto è colui che non osserva l’uguaglianza, e ciò che è ingiusto è ineguale”, si è affacciata da poco e non ovunque nella storia, ma tendenzialmente solo in linea di principio, perché di fatto il riconoscimento non è esteso a tutti i componenti della società, ma solo al gruppo di cui si fa parte, a chi professa la stessa fede, a chi ha lo stesso colore della pelle, a chi parla la stessa lingua, a chi manifesta le stese idee, a chi ha la stessa elevata condizione economica.
Quando il riconoscimento non è universale la società è ingiusta. E non perché vieta a chi ha le capacità di affermarsi, ma perché, in mancanza di un riconoscimento universale, non garantisce che tale percorso possa essere intrapreso da tutti in condizioni non discriminate.
Siccome il modello della società verticale è stato il più seguito nella storia, perché sostenuto, oltre che dall’istinto dei singoli, dalle istituzioni sia religiose sia politiche, questo modello finisce con l’apparire "naturale" e quindi "giusto".
Talvolta persino condiviso dalle vittime, persuase che sia "giusto" che qualcuno comandi e gli altri ubbidiscano, come spesso accade ai subordinati negli uffici, agli operai nelle fabbriche, alle donne senza reddito in famiglia. Qui e altrove le regole della società orizzontale soccombono a quelle della società verticale, dove vige la gerarchia del potere e dove arroganza e sudditanza si confondono persino nella stessa persona. Arrogante con chi sta sotto e sottomesso con chi sta sopra.
"Morbo dell’impresa" come la definisce Pier Luigi Celli nel suo ultimo bellissimo libro Altri esercizi di pentimento. Ma la stessa gerarchia dell’impresa la troviamo nell’esercito, nella chiesa, nella scuola, negli uffici, in fabbrica, dove ingiusta non è la gerarchia, ma pensare di risolvere le situazioni di conflitto applicando il principio della scala gerarchica, per cui chi è più in basso deve sempre cedere.
Accade così che in teoria viviamo in una società di uguali dove nessuno oserebbe dire che non è giusto rispettare tutte le persone, in pratica viviamo in una società di subordinati dove il riconoscimento dell’altro dipende dal grado gerarchico o dalla condizione sociale.
Sul riconoscimento dell’altro insiste anche Jean-Luc Nancy, nelle sue lezioni ai bambini, dove tenta di spiegare che il giusto e l’ingiusto si decidono sempre nel rapporto con gli altri, per cui farsi giustizia da sé non ha alcun senso. Così come non ha senso la "legge del più forte" o, come si suol dire la "legge della giungla", perché nella giungla non troviamo leggi, ma rapporti di forza.
La giustizia, spiega Nancy, esige che si rispetti ad un tempo l’uguaglianza e la singolarità, per cui sarà bene che tagliando una torta si facciano fette uguali, ma se uno è diabetico sarà giusto dargli una fetta più piccola, e una più grossa a chi, per le sue condizioni economiche, non ha molte occasioni di assaggiare una torta.
Questa co-presenza di uguaglianza e di singolarità nel concetto di giustizia comporta che si conosca davvero l’altro, che lo si prenda in considerazione per la sua specificità, raggiungendo quel vertice della giustizia che non è nella generalità della legge, ma, come diceva Aristotele, nell’equità che adatta l’universalità della legge a caso per caso, dando a ciascuno ciò che è veramente dovuto.
Per questo esistono i "diritti dei bambini" che sono diversi dai diritti degli adulti, e per la stessa ragione esistono i "diritti delle donne" dopo secoli di misconoscimento. Ma oltre ai bambini e alle donne esistono gli immigrati che giungono da noi con altri usi e costumi, esistono i diversi da noi per razza, per religione, per scelte sessuali, per forme di convivenza, e ingiusta sarebbe la legge che li discrimina. Mentre abbiamo chiamato i "Giusti" coloro che, nella seconda guerra mondiale, a dispetto della legge e delle loro affinità naturali, pur non essendo ebrei e non avendo alcun legame di religione o di comunità con gli ebrei, hanno salvato la loro vita a rischio della propria.
Siccome la giustizia prevede l’uguaglianza di persone che sono diverse e singolari, la giustizia è un compito infinito. E pensare che non siamo mai abbastanza giusti è già un modo per cominciare ad esserlo. ‟Questo pensiero - conclude Nancy rivolto ai bambini - dovete pensarlo da soli, perché nessuno verrà mai a dirvi che cos’è la giustizia assoluta. Se qualcuno potesse dirlo, forse non dovremmo neanche essere giusti o ingiusti, dovremmo solo applicare meccanicamente quella che sarebbe una legge”.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …