Umberto Galimberti: Uomini e macchine, la vittoria è della tecnica

25 Marzo 2008
Era il 1968, gli anni della contestazione giovanile, e sulla facciata del liceo dove ero stato nominato commissario per gli esami di maturità c’era scritto: ‟Servire il popolo”. L’indomani, per tutta risposta, sotto quella scritta ne era comparsa un’altra: ‟Il popolo si serve da solo”. Non era finita lì, perché dopo qualche giorno comparve la scritta definitiva: ‟Self service”. Mai avrei pensato che questo sarebbe diventato il programma per gli anni a venire dove, neanche a cercarlo, trovi più nessuno che faccia qualcosa per te.
Se vai al supermercato gironzoli da solo a cercare i prodotti che ti servono senza che nessuno più ti rivolga la parola, se non la cassiera quando, un po’ seccata, ti dice il prezzo che non sei riuscito a leggere nella finestrella collegata al suo computer. Se vai alla stazione, per evitare le code, hanno disposto per te delle macchinette che, opportunamente digitate, ti rilasciano il biglietto che ti serve. Mi dicono che in alcuni aeroporti americani accade la stessa coda per i check-in.
Non parliamo poi dei servizi bancari, dove non hai più bisogno di incontrare un impiegato perché, o per via telematica o in quei loculi simili a confessionali, puoi effettuare versamenti o prelievi senza scambiare una parola con nessuno. Anche se vuoi bere un caffè, nero o macchiato, lungo o ristretto, basta che digiti le tue preferenze e la macchina fa tutto da sé.
Persino la benzina te la puoi fare da te, se vuoi risparmiare quello zero virgola che i distributori ti scontano se ti arrangi da solo.
L’inverno scorso ero a Londra e chiesi al portiere dell’albergo se mi poteva chiamare un taxi. Il portiere per tutta risposta mi piazzò davanti un telefono e, senza troppa cortesia, mi disse: ‟Help yourself”, ‟provvedi da te”.
Un po’ smarrito e pervaso da un senso di spaesamento mi sono chiesto: ma davvero è proprio finita la comunicazione tra gli uomini? Davvero non abbiamo più bisogno di nessuno? E nessuno è più disposto a fare qualcosa per noi? Sembra proprio di sì. Anche se la pubblicità ti descrive un mondo dove tutti sembrano pronti a soccorrerti e a soddisfare ogni tua più piccola esigenza: dal lavandino che vuoi iperlucido, agli yogurt che non ti fanno ingrassare, dai prodotti che risolvono i tuoi problemi di stitichezza, alle tariffe telefoniche sempre più convenienti, alle creme più diverse che ti consentono di accarezzarti da solo, dal momento che più nessuno ti accarezza.
Basta pagare. E poi tutto il mondo è ai tuoi piedi, per i tuoi bisogni necessari o superflui, per le tue esigenze reali o immaginarie.
Ma nessun gesto gratuito, nessuna gentilezza senza compenso, nessuna faccia umana che ti dica qualcosa anche di approssimativo. Solo o sempre più un video che ti dice cose precise se appena sai digitare e, in perfetta solitudine, puoi vendere o comprare, comunicare senza un interlocutore con nome e cognome, perfino fare sesso nella formula ‟help yourself”.
La tecnica ci fa risparmiare cose, tempi, attese, inserendoci in quei circuiti di perfetta efficienza e funzionalità, dove la ragione strumentale, quella delle macchine, regola il nostro modo di vivere senza doverci affidare al linguaggio umano, pieno di equivoci, di fraintendimenti, ma anche di quella sovrabbondanza discorsiva che certo non è funzionale al rapido raggiungimento dello scopo, ma che fa così bene all’anima, perché consente al dolore di diluirsi nella comunicazione, alla gioia di espandersi nella condivisione, alla noia di attenuarsi nell’incontro imprevisto, alla gratuità della conversazione di acquisire altri punti di vista capaci di schiodare i nostri problemi da quel vicolo cieco in cui la nostra solitudine li aveva cacciati.
Il mondo della vita sta esaurendosi e rattrappendosi nel mondo della tecnica. E la solitudine si espande diventando una solitudine di massa, dove persino i ‟buongiorno” e i ‟buonasera” che scambiamo con chi sale l’ascensore con noi non lasciano trasparire nessun vero interesse. Semplici password per sottrarsi all’imbarazzo del silenzio in questo anonimato di massa, dove nessuna parola viene sprecata e tanto meno si fa veicolo di un incontro vero.
E poi chiamano tutto questo ‟progresso”, mentre in realtà è impoverimento del linguaggio, il suo rattrappimento nella pura e semplice funzionalità, dove le macchine prendono il posto degli uomini e fanno per noi tutto quello che gli uomini non sanno più fare o non hanno più voglia di fare.
‟Provvedi da te” è ormai il motto generalizzato. In fondo c’è sempre una macchina che ti può soccorrere, mentre gli uomini diventano ogni giorno di più inconvenienti da evitare, in quel deserto della comunicazione che non cessa di espandersi a detrimento del mondo della vita, che forse non conosce le risposte perfettamente funzionali della tecnica, ma certamente non ignora le parole che sanno toccare l’anima e farla sentire in ogni istante meno sola.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …

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