Vittorio Zucconi: Martin Luther King. Cosa resta del sogno di un santo americano

31 Marzo 2008
Martin Luther King jr nacque il giorno in cui fu assassinato, il 4 aprile del 1968. Fu alle ore 18 e 01 sul balcone della sua stanza di motel a Memphis, quando un solo proiettile da caccia al cervo sparato dall’edificio di fronte penetrò nella mandibola, deviò nel collo e si fermò nella clavicola, il momento nel quale morì un giovane trascinatore di folle e attivista di appena trentanove anni e dai suoi resti si alzò il Martin Luther King che conosciamo oggi: un santo americano, per sempre beatificato dal proiettile di un fucile Remington.
Non ci sono faticose inchieste canoniche nel processo di santificazione laica e istantanea nell’America della violenza politica, che soprattutto in quegli anni Sessanta produceva martiri come un anfiteatro Flavio nei suoi giorni migliori. Il colpo di pistola che trafisse Abramo Lincoln fece dimenticare le sue esitazioni sulla questione degli schiavi e ne fece per sempre l’apostolo della emancipazione. I colpi del "Carcano modello 91" sparati da Lee Harvey Oswald sterilizzarono la vita non esemplare di John F Kennedy, immunizzandone il ricordo dalle rivelazioni più sordide, così come le rivoltellate che freddarono suo fratello Robert nell’hotel Ambassador di Los Angeles cancellarono, nell’empireo della sinistra americana, il ricordo della sua attiva partecipazione al maccartismo. Nel Pantheon e nel martirologio dei santi americani, il processo della assunzione al cielo del mito richiede i pochi centesimi di secondo necessari perché una pallottola copra il percorso, a velocità supersonica, dalla canna dell’assassino al bersaglio.
E così è stato per King, per il figlio ed erede della chiesina battista di Atlanta guidata dal padre King senior e intitolata ad Ebenezer, la ‟pietra della speranza” che il profeta Samuele piazzò in Palestina, secondo la Bibbia. L’uomo che era stato costretto a tornare in fretta e controvoglia a Memphis, aveva guidato per quasi quindici anni l’ala non violenta, disobbediente ma non rivoluzionaria, gandhiana, del fronte per il riconoscimento di quei diritti civili e soprattutto sociali ed economici che l’emancipazione degli schiavi non aveva spostato di un passo. Dall’appoggio e dall’organizzazione del boicottaggio in favore di Rosa Parks a Montgomery, arrestata nel 1955 dalla polizia dell’Alabama perché aveva rifiutato di sedere nei ‟posti riservati ai negri” sull’autobus, al suo "discorso del sogno" sulla spianata monumentale di Washington nel ‘63, l’autorità e la statura internazionale del dottore in teologia che aveva studiato in un college di gesuiti a Boston, il Boston College, erano solide e confermate da un Nobel per la pace.
Ma autorità e prestigio non sono ancora santità e lui lo sapeva. Non tutta l’America di sangue africano lo venerava, nella concorrenza crescente con i duri, come Malcolm X già assassinato e anche lui assurto al cielo degli intoccabili, le Pantere Nere, i Weathermen. Quando fu costretto a tornare a Memphis da Atlanta, due città distanti un’ora di volo tra le quali aveva fatto la spola per tutto il mese di marzo, King era un uomo distrutto dalla fatica, tormentato dai dubbi e depresso dall’accanimento persecutorio con il quale J. Edgar Hoover e l’Fbi cercavano di demolirlo, secondo il classico sistema già usato dallo stesso Hoover per attaccare gli odiati Kennedy: il sesso, un terreno particolarmente caro al creatore dei G-men che si dilettava di indossare costumi da ballerina classica, con collane e tutù di tulle, per intrattenere il proprio collaboratore e braccio destro a fine lavoro.
Il compagno di battaglia, il reverendo Abernathy, lo descriverà come un uomo ‟allo stremo della forza fisica”. Jesse Jackson, che fu con lui quando il proiettile da caccia grossa gli trapassò il volto e il collo, dirà che per la prima volta da quando lo conosceva lo aveva visto ‟spaventato”. Non dalla morte, ma dal timore di fallire, di essere la vox clamantis in deserto, la voce di colui che grida a vuoto nel deserto dell’America violenta del 1968. ‟L’America è oggi la massima esportatrice di violenza e di guerra nel mondo”, aveva detto pensando alla carneficina in Vietnam esplosa con la battaglia del Tet in febbraio, e alla brutalità interna di quel tempo. Parole che ricordano assai da vicino le omelie di quel pastore nero di Chicago, Wright, il mentore e consigliere spirituale di Barack Obama, descritto dagli avversari come un fanatico anti-americano.
Gli costò un enorme sforzo fisico e di volontà tornare a Memphis, dove i milletrecento "operatori sanitari", gli spazzini della città, quasi tutti neri, erano in sciopero da giorni per ottenere un aumento di stipendio da un dollaro e trentacinque a due dollari l’ora, docce per lavarsi e guanti per maneggiare immondizia verminosa, nel clima umido e malsano del grande padre Mississippi, il fiume di Memphis. Le dimostrazioni degli spazzini erano degenerate in violenza, soprattutto dopo la morte di due di loro schiacciati da un camion-scopa; il sindaco Loeb aveva respinto ogni compromesso proclamando che lui ‟non avrebbe mai fatto accordi con un sindacato di negri”, e in questo suo ritorno alla Gerusalemme che lo avrebbe crocefisso, King, portato di peso dai collaboratori nel Tempio della loggia massonica per il discorso, vide la propria fine: ‟Sono stato sulla vetta della montagna e ho visto il panorama ai miei piedi della terra che ci è stata promessa”.
Il suo volo da Atlanta era arrivato con grande ritardo, dopo che una telefonata anonima aveva annunciato una bomba a bordo. Minaccia presa sul serio perché già una bomba era esplosa davanti alla sua chiesa, un’altra era stata scoperta e disinnescata in tempo, e lui era sopravvissuto alla coltellata di una donna, di colore, che lo aveva pugnalato in una libreria sfiorandogli con la punta l’arteria aorta: ‟I chirurghi mi dissero che se avessi starnutito sarei morto”. ‟Ora sono a Memphis”, disse in quel discorso della montagna, ‟e so che qualche nostro demente fratello bianco vuole attaccarmi. Mi piacerebbe vivere una lunga vita, la longevità può essere una buona cosa, ma ora non mi importa, voglio soltanto fare la volontà di Dio”. Coretta, la moglie, che telefonava da Atlanta, pianse quando le riferirono di quel discorso e di quel presentimento.
‟Il demente fratello bianco” era già ben sistemato alla finestra di un vecchio edificio delabré, un hotel a ore, proprio di fronte al Lorraine Motel dove sempre scendevano i leader del movimento quando erano a Memphis. Costava poco, era dignitoso nella sua banalità anni Cinquanta ed era nel cuore della città nera. Il suo nome era James Earl Ray, evaso dal penitenziario del Mississippi, ricercato dallo Fbi e da tutte le polizie. Non era un tiratore scelto, come era stato Oswald, "cecchino" addestrato dai Marines, e il suo fucile, un Remington 30/60, aveva un mirino telescopico che non funzionava. E se la distanza è assai breve, forse trenta metri fra il motel e il lupanare, la precisione del colpo fu micidiale. Un proiettile in testa non lascia scampo. King, un po’ vacillante sulla gambe per la stanchezza, si era affacciato alla balaustra con i suoi apostoli: Andy Young, Jesse Jackson, Ralph Abernathy, sul quale l’Fbi stava raccogliendo dossier enciclopedici conditi di immancabili sospetti di simpatie ‟comuniste”. Il colpo, che qualcuno vide arrivare da un cespuglio, abbatté King, ma non lo fece morire istantaneamente. Mentre gli altri chiamavano il centralinista dell’albergo, che non rispondeva, per domandare un’ambulanza, l’ormai quasi santo martire fece a tempo a mormorare a un musicista che era accorso dalle stanze: ‟Stasera suona l’inno Vengo da te, mio prezioso Signore e suonalo bene”. Poi morì. L’ambulanza non arrivò perché il centralinista del motel era morto anche lui, stecchito da un infarto fulminante quando aveva sentito lo sparo. Ma non avrebbe fatto alcuna differenza.
E cominciò lo stesso processo di sdoppiamento che si era già visto con Kennedy, quasi identico. La transustanziazione del reverendo ucciso fu quasi immediata. Il presidente Johnson, che già aveva dovuto seguire il feretro di Kennedy assassinato, lo proclamò immediatamente eroe nazionale, creando un giorno della memoria per lui e lanciando l’intitolazione di strade, autostrade, edifici che oggi pullulano nelle città, assai meno nella campagne. Ma parallelamente si aprì quell’abisso di sospetti e di "complottismi" che ancora non si è chiuso. Ray, ‟il fratello demente”, fu subito identificato, perché lasciò molto cortesemente una borsa con i propri indumenti e il fucile stampato delle sue impronte digitali, ben conosciute alla polizia essendo un detenuto evaso. Fu arrestato mesi dopo, mentre tentava di passare la frontiera inglese, dunque oltremare, con un passaporto falso. Confessò su consiglio dell’avvocato per risparmiarsi la sedia elettrica in cambio di novantanove anni di carcere, ma appena battuta la sentenza, ritrattò.
Se sul caso Kennedy rimane, ancora oggi, la domanda senza risposta del movente (chi aveva davvero interesse a ucciderlo? La Mafia? La Cia? I cubani, come pensava Johnson, per conto dei russi umiliati da lui con la crisi del missili? L’apparato militare-industriale?), i possibili pretendenti al martirio di King potevano essere legioni. Dall’Fbi che lo aveva giudicato ‟il peggior bugiardo e impostore”, nelle parole di Hoover che lo vedeva come una marionetta dell’onnipresente congiura comunista; al mondo politico del Sud, che ancora tentava di resistere all’avanzata dell’integrazione; ai grandi "padroni del vapore" spaventati dalla piega sempre meno mistica e sempre più economicista che lui aveva preso, convinto ormai che non ci sarebbe mai stata eguaglianza di diritti senza eguaglianza di reddito (aveva anche invitato i neri americani a negare i trenta miliardi di acquisti annuali alle grandi multinazionali come la Coca Cola o alle compagnie di assicurazione, destinando i loro soldi ai commerci e alle imprese di gente di colore).
Al processo civile che trent’anni più tardi Coretta, la vedova, avrebbe intentato e promosso, la giuria riconobbe che in quell’omicidio c’erano ben altre impronte digitali che quelle lasciate sul fucile da Ray. Agenti di polizia e vigili del fuoco di Memphis, stazionanti accanto al motel, rivelarono di essere stati misteriosamente ritirati dal quartiere per ordini superiori arrivati all’ultimo momento. L’arma del delitto fu collegata a un mafioso italiano proprietario di un ristorante-taverna, Jim’s Grill, aggiungendo, come Jack Ruby a Dallas, il Fattore Cosa Nostra al complotto. Spuntarono doppiogiochisti, agenti della Cia, un misterioso ‟Raul”, nome ispanico come quel ‟Ramon” che l’assassino aveva usato per il passaporto falso usato per espatriare. E la famiglia King chiese ed ottenne cento dollari di danni punitivi contro la città di Memphis, somma simbolica.
Ma la causa vinta cadde nella totale indifferenza anche dell’America di colore (quando fu emessa, c’erano soltanto due giornalisti in aula, un americano e l’inviata di un giornale portoghese) non per scetticismo ma per certezza. Tutti sanno, e dicono di sapere, che Martin Luther King fu sacrificato perché la sua minaccia non violenta era infinitamente più pericolosa delle grottesche azioni paramilitari delle Pantere Nere o dei guerriglieri della liberazione, facilmente riducibili ad atti criminali e quindi reprimibili. E quarant’anni più tardi, di rivolte armate come quelle che incendiarono i centri delle metropoli americane dopo la notizia dell’assassinio nessuno parla più, mentre Martin Luther King jr è più vivo che mai. Non nelle autostrade, ma in quelle donne e in quegli uomini, da Colin Powell a Condoleeza Rice fino alla campagna elettorale non violenta e messianica di Barack Obama, che dimostrano ancora una volta come ammazzare i santi sia sempre controproducente.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …