Vittorio Zucconi: Usa. Il falso mito dell'identità

30 Maggio 2008
Scolpito nel genoma di ogni americano dal giorno 16 dicembre del 1773 quando i ribelli travestiti da "selvaggi" del Massachussetts gettarono in mare 45 tonnellate di tè appartenenti alla Compagnia britannica delle Indie Orientali, il mito dell’equivalenza fra democrazia liberale e prosperità economica, fra autodeterminazione e mercato, è qualcosa che, come tutti i miti, non è in realtà mai esistito, ma che esisterà per sempre. Costruito su fondamenta teoriche più fragili di quanto appaiano nell’accettazione acritica dei dogmi dello scozzese Adamo Smith spesso male interpretati o delle imperiose riedizioni che ne fece il Nobel Milton Friedman da Chicago divenute il vangelo dei repubblicani contro l’eresia keynesiana e "liberal", la fede nel gemellaggio monovulare fra le due libertà è parte integrale e integrante della "identità americana". Anche di fronte a preoccupanti smentite, come il successo delle molte "dittature di sviluppo" asiatiche come la Corea del Sud fino agli anni ‘90 o la Cina, come il Giappone della "dittatura soft" di uno stesso partito al potere da 60 anni o di Taiwan dominata per una generazione dagli eredi assolutisti del Kuomitang, la reazione delle classi dirigenti Usa è la ripetizione a memoria di un atto di fede. Non importa se lo sviluppo cominci sotto la guida della mano pubblica o se avvenga spontaneamente, se la ricchezza nazionale cresca senza un progresso parallelo della democrazia rappresentativa e dei diritti civili individuali. Prima o poi, inesorabilmente, le due linee tenderanno a convergere e "le due libertà" si fonderanno. Come negli Stati Uniti. La forza del mito si radica, come vuole sempre la psicologia collettiva americana, nell’esperienza della propria storia. Poichè gli Stati Uniti sono il paradigma di tutto ciò che di positivo accade nell’evoluzione dell’umanità e, come ha dimostrato George Bush immaginando di poter esportare l’America di Jefferson e Madison nella Mesopotamia di Shia e Sunni, nulla salus extra Americam, non vi può essere bene o salvezza al di fuori del modello americano, il fatto che questa nazione sia riuscita in poco più di 200 anni a divenire la massima potenza economica del pianeta, e la massima potenza militare di sempre, mantenendo intatta la propria forma di governo civile liberal-democratico è la dimostrazione empirica del teorema. Prova riprovata, come avrebbe detto Galileo, dallo sviluppo straordinario mostrato dall’Europa occidentale dopo la conversione di tutte le sue nazioni, ultima la Spagna post franchista, alla formula mercato + democrazia = prosperità. La accettavano implicitamente anche i più agguerriti e tenaci avversari che mai il capitalismo americano avesse conosciuto, i comunisti sovietici e i marxisti assortiti. La certezza delle "crisi cicliche del capitalismo", che passando di "boom" in "crash" avrebbero finalmente smascherato la truffa della falsa democrazia, era tanto dogmatica a Mosca quanto era la fede americana nel contrario e spiega la sicurezza con la quale Kruscev annunciò a Nixon che nel volgere di pochi anni l’economia pianificata sovietica avrebbe gettato nella spazzatura della storia l’economia capitalista. Una generazione più tardi, ancora oggi l’irriducibile Noam Chomsky predica contro "il falso libero mercato", denunciandolo come uno strumento per risucchiare ricchezza dal basso della piramide sociale verso un vertice sempre più ristretto, mentre al popolo viene offerto per distrarsi lo straccio della democrazia elettorale. Ma se la storia e l’esperienza fossero osservate senza lenti ideologiche e senza gli opposti fideismi, si vedrebbe che il matrimonio fra Smith e Jefferson, fra il mercato libero e la democrazia, è assai più accidentato di quello che si vorrebbe far credere. Nel ciclo di "boom and crash" che puntualmente si ripete, quasi mai sono il mercato, la "mano invisibile" di Smith (che non era affatto quel liberista assoluto che l’agiografia vorrebbe disegnare, ma credeva nel concetto temperante della solidarietà per correggere il mercato) o la semplice leva monetaria indicata da Friedman a risollevare la barca sulla cresta dell’onda. Dopo la tragica esperienza del 1929-30, che soltanto la guerra, dunque il massimo possibile dello statalismo in azione, risolse definitivamente, anche il dopoguerra ha visto puntualmente l’intervento della mano visibile, dell’autorità federale, per uscire dalla tempesta. Non fu il libero mercato, ma il massiccio intervento della Riserva Federale di Volker e Greenspan, strumento che liberisti assoluti come il candidato repubblicano (sconfitto) alla presidenza Ron Paul vorrebbe abolire, a ripescare la Borsa al collasso durante gli anni del reaganismo. Ancora fu la Fed, tirando per i capelli banche e finanziarie recalcitranti, a salvare la liquidità dopo il disastro della Long Term Capital che aveva divorato un migliaio di miliardi di dollari scommettendo sui bond sovietici insolventi, così come questa primavera è stata la Fed a far sopravvivere almeno il marchio della Bear & Sterns per evitare l’esplosione del panico e la corsa alle banche. Se il naufragio delle speculazione sui mutui a rischio, i "sub prime", non trascinerà l’intero mercato immobiliare e tutto l’universo del credito a fondo sarà perché di nuovo il governo federale (tardi e male), il Congresso, la Fed di Bernanke, grande studioso della Depressione, gli sceicchi allagati di petrodollari leggeri e i cinesi, gonfi di cambiali del Tesoro americano , si sono mossi. Portando capitali generati e prestati da governi e miliardari che non praticano nè il libero mercato nè ancor meno la democrazia politica. Ecco dunque un esempio lampante di un caso nel qualegli imperativi democratici (e gli interessi politici) impediscono al libero mercato di dispiegare la propria azione, mostrando la contraddizione sociale che fra i due può aprirsi. Ed ecco che piovono 168 miliardi di dollari che in questi giorni il fisco americano sta restituendo a noi contribuenti perchè vengano spesi nei centri commerciali e nei serbatori delle automobili, negazione del mito liberista, quanto lo sono quei finora 700 miliardi (in prospettiva due mila secondo Joseph Stiglitz) buttati dall’amministrazione Bush nella guerra per controllare l’Iraq nel nome di una scelta ideologica che con il libero mercato nulla ha a che fare. Quello dell’assoluta identità fra mercato e democrazia, della sua esportabilità in ogni clima e in ogni continente, è dunque uno di quei "miti aggreganti", proprio come avrebbe voluto Leo Strauss, il filosofo tedesco padre spirituale di tutta la nidiata dei neocon portati al potere dall’onda di panico post 9/11 che, come il totem al centro dell’accampamento, servono a rabbonire e unificare gli abitanti del villaggio. A fare "identità culturale" in una nazione dalla debole identità etnica, linguistica o religiosa. Il mondo dimostra che ci si può arricchire senza democrazia si può essere una democrazia senza diffondere ricchezza, come potrebbero attestare gli impiegati a salario fisso dell’ultimo decennio italiano. Ma non si può chiedere a un americano di rinunciare alla fede nell’equazione democrazia = mercato senza chiedergli di rinunciare a essere americano.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …