Paolo Rumiz: Grande guerra. La battaglia dove morì Peter Pan

03 Giugno 2008
Il trabiccolo giallo a doppia ala rulla sul prato, oscilla, emette il borbottio esitante di un barchino. È un De Havilland Tiger Mouth, biposto da addestramento classe 1935. Prima di salire a bordo, il pilota ha dato istruzioni tipo ‟non monti qua che le ali si sfondano”, ‟non muova le ginocchia in volo, potrebbe toccare il cavo dell’acceleratore”, poi mi ha ficcato in testa un casco di cuoio e ha dato di manetta. Via subito, senza i noiosi preamboli dei jet di linea. Non si fa in tempo ad abbassare gli occhialoni e si decolla, leggeri come in un acquarello di Walter Molino, e oltre un filare di pioppi il Piave in grigioverde già sprofonda sotto le ali.
Non è un gioco. È guerra. Un altro biplano ci precede, vira verso il Montello. Ha colore grigio e due mitraglie davanti al parabrezza. È lo Spad 13 monoposto di Francesco Baracca, l’eroe dell’aria morto il 18 giugno di novant’anni fa nella più tremenda battaglia del Piave, quella del Solstizio, vinta dall’Italia dopo un’offensiva austro-tedesca scatenata dalla pianura fino alle falde del Grappa, tutta in provincia di Treviso. L’inferno cominciò la notte tra il 14 e il 15 con uno sfondamento sul fiume, in pochi giorni tutto finì, con decine di migliaia di morti e la rinuncia del nemico esausto a ogni altro progetto di avanzata su Venezia e la valle del Po. Oggi il tempo è come allora, bisogna infilarsi fra banchi di pioggia e nubi turrite, gonfie come cavolfiori.
Fracasso e vento, ma tutto scorre come in un film muto. Dall’alto la battaglia del Montello si dispiega come su una carta militare, aperta sul tavolo di un quartier generale. C’è tutto. La 31ma divisione degli Honved ungheresi che guada il Piave a Falzé, dove il fiume è più stretto. La 13ma divisione degli Schuetzen che getta un ponte di barche all’altezza di Villa Jacur. La 17ma divisione Honved che attacca a Nervesa, poco a monte del ponte della Priula: il punto dove gli austriaci videro Venezia ed esultarono. Dietro di me il pilota si sbraccia - anche urlando non ci si sente - indica i punti che ha mostrato sulla carta prima del decollo. Ma già lo Spad prende quota, sorvola il ponte ferroviario subito piccolo come un modellino Rivarossi, poi un sacello di bianche colonne, perso in mezzo al bosco. Il monumento a Baracca.
Novant’anni non sono niente. Elena Olivotto, che ne ha novantanove, se lo ricorda bene il cavaliere dell’aria. Ce ne ha parlato a Nervesa prima che la nostra pattuglia prendesse il volo. Tutto è lì, nella sua memoria. La partenza del pilota in stato di sovraffaticamento, il guasto, forse una mitragliata nemica, lui che s’avvita e cade sulla riva italiana. ‟Decollando, salutava i bambini con un affettuoso "guai a voi", perché gli tiravamo sassolini… Al ritorno ci distribuiva caramelle… Era un grande”. Sorride commossa. Per lei come per tutti i veneti il Diciotto fu uno shock, la fine di un mondo millenario sotto l’urto della modernità. In un anno arrivarono la corrente elettrica, la radio, i motori, i cannoni, la carne in scatola, le macerie, le evacuazioni, la morte di massa. E la fame.
Vennero soprattutto quegli aerei che riempivano il cielo. Milleduecento, tra le Prealpi e la Laguna. I piloti erano i più esposti di tutti i soldati al fronte. La loro vita media in prima linea era di nove giorni, un suicidio. Bastava una fucilata ad abbatterli. I motori si incendiavano una volta su tre, la visibilità era nulla, l’addestramento precario, la velocità non andava oltre i centosessanta orari. Mai industria ebbe tanti disperati collaudatori come quella aeronautica nella Grande guerra.
Scendiamo sul Piave, ora lo Spad fa il pelo all’acqua, risale controcorrente. È identico all’originale, salvo il motore, più sicuro. Lo seguiamo a cento metri, bassi anche noi, sotto un cielo di temporale. Stavolta il fiume non mormora, ruggisce. È gonfio come non succedeva da anni. È segnato da squarci di schiuma, tagliato diagonalmente da piatte isole a forma di pesce. Una fu chiamata ‟dei Morti” per l’ecatombe che vi si consumò. Tanti luoghi cambiarono nome allora. Persino il fiume. Prima si diceva "la Piave", a indicare una dea fertile. Poi la reclutarono, le cambiarono sesso e ne fecero "il Piave". Stessa sorte ebbe ‟la Brenta” sotto il ponte di Bassano, e la montagna detta "Grappa", che non potevano essere femmine sul quel fronte di maschi.
Il pilota che inseguiamo nel cielo di Baracca è Giancarlo Zanardo, sessantanove anni, industriale chimico di Conegliano. Una passionaccia per il volo. Gioca con le nubi, scende a spirale, s’impenna, infila una finestra con vista sulle Dolomiti innevate. A Nervesa ha messo su una squadriglia di aerei d’epoca, incluso quello dei fratelli Wright e il rosso triplano "Fokker B1" dell’asso austriaco della Grande guerra, detto il Barone Rosso. ‟Non è roba stantia piena di muffa - ci ha detto con orgoglio nel suo hangar stipato di gloriosi modelli - ma roba che vola”. Vorrebbe lasciare il suo patrimonio in buone mani - mani pubbliche - ma in quest’Italia non è facile far capire il valore di una cosa simile.
Dall’alto, il Montello è come un zatterone inclinato verso la pianura; ora siamo sopra i punti chiave della Grande Memoria. Dietro una montagna di vapore emerge all’improvviso il bianco sacrario di Nervesa, sulla sommità di un colle, cubo fascista riempito di loculi. Nei giorni di temporale, la pioggia e il vento infilandosi all’interno costruivano un lamento, poi un’oscena cupola in plexiglas ha tolto ai morti l’ultima voce. Nel ‘39 il Duce lo fece sorvolare da squadriglie da combattimento; erano passati ventuno anni e la gente mangiò la foglia. Un’altra guerra stava arrivando. Tutti i sacrari lì intorno erano stati costruiti per glorificare e non per maledire la guerra. Troppo grandiosa quella mobilitazione di Caduti chiamati a propiziare nuove imprese. Ancora nubi, turbolenze, poi lo scheletro dell’abbazia di Sant’Eustachio, dove monsignor Della Casa scrisse Il Galateo, moncone sopravvissuto delle bombe di giugno.
Saliamo verso il Grappa tra grandi manovre di nembi. Fa freddo, il casco di cuoio si gonfia di vento. Ora si sta aprendo un altro fronte del Solstizio. Monte Fenera, la valle dei Solaroi, prati idillici impregnati di ferro e balistite. La strada del generale Giardino, ancora imbandierata dell’ultima adunata degli alpini, che sale su a strappi, con pattuglie di motociclisti (tedeschi?) che fanno zigzag verso il rifugio Bassano. Il ponte San Lorenzo, sull’altro versante, quattro case e un alberghetto, segnano il punto della massima avanzata austriaca e l’inizio della controffensiva italiana raccontata, proprio in quel punto da Ernest Hemingway in Addio alle armi. Un patrimonio storico unico, concentrato in uno spazio minimo, che la Provincia di Treviso sta finalmente collegando con una rete segnaletica e di guide.
Vista da est, la cima calva del Grappa pare la chiglia di un Titanic rovesciata in un fondale oceanico. La prua guarda la pianura. Un luogo magico, abitato da chissà quali dei, colpito per primo dal sole che nasce e per ultimo dal sole che muore. Anche lì, sacrari, uno italiano e uno austro-ungarico, che il Duce volle vicini, negli anni dell’avvicinamento a Hitler. D’inverno si coprono di gelo e il vento fa suonare le stalattiti di ghiaccio come canne d’organo. Ma anche in primavera, con la pioggia in giro, può fare freddo. Dobbiamo rientrare, passando accanto al sentiero delle Meatte, scavato per i fanti in uno scenario dantesco di picchi e strapiombi, con vista immensa sulla pianura. Ottanta teleferiche salivano sul Grappa per rifornire la prima linea. Tutte sistemate a mano. Uno sforzo logistico pauroso.
Scendiamo a scaldarci le ossa, Zanardo nel suo hangar brinda con un ‟prosecchino”, poi decolla di nuovo per un giretto. È ora di tornare sul Grappa, per vederlo da vicino, col maresciallo Diego D’Agostino, artiglieria da montagna, direttore dei sacrari sul fronte del Diciotto. A furia di incontrare visitatori austriaci e tedeschi, ha imparato che attorno ai monumenti di guerra si costruisce al meglio la pace. Con lui anche Marzio Favero, assessore alla Cultura della Provincia che sarà anche la più leghista d’Italia - Treviso - ma che qui lavora per valorizzare questa grande memoria italiana sulla scorta di quanto fatto da belgi e francesi, con criteri modernissimi, sul fronte occidentale.
C’è un loculo che ha molti fiori, più fiori di qualsiasi altra tomba, su in cima, sul lato nord del sacrario austriaco. ‟Venga a vedere”, dice D’Agostino e indica sorridendo il nome. ‟Peter Pan” c’è scritto, in bronzo. Groppo in gola. Lassù, sul suo galeone rovesciato nell’Isola-che-non-c’è, quel ragazzo venuto da chissà dove accende la commozione dei bambini, come se il tempo non esistesse. Sul monumento garrisce la bandiera austriaca, ma i morti dell’Impero sono anche sloveni, croati, polacchi, bosniaci, ungheresi. Andreas Koudelka, Ivo Kratic, Ujos Hagy. ‟Quanti povari tosati”, dicono i veneti davanti a quei nomi impronunciabili.
Galleria Vittorio Emanuele III, cinque chilometri scavati a mano, con i cannoni incavernati che a ogni colpo lasciavano un rimbombo da tomba, da malebolge, da paura. ‟Per capire - spiega Favero sparando dalla bocca nuvolette di vapore - bisognerebbe mettersi qui dentro con un sacco a pelo e accendere una candela”. Una volta i morti erano tutti qui, nelle gallerie gelide, nel gocciolio, come sul marmo di un tavolo autoptico. ‟Portar qua i boce xe importante. C’è come una consegna generazionale, un ordine cui obbedire. Qui mi ha portato mio padre e qui ho portato mio figlio. La memoria storica passa come una corrente carsica attraverso i luoghi-simbolo di un’identità”.
Si finisce a polenta e luganeghe in un "fojarol", una casetta col tetto in foglie di faggio che tiene la pioggia a meraviglia. Da sotto il Sasso delle Capre, oltre le linee austriache, gran vista sul versante di Feltre. ‟Ma da questi monti si vede anche l’Istria e l’Appennino”, gioisce Giovanno Codemo, sessantatré anni, bellunese, attizzando il suo fuoco. Esce, affonda le mani a caso nella terra bagnata, ne tira fuori scaglie marroni a forma di losanga. ‟Balistite, a chili, dappertutto. Funziona ancora”. Ne mette insieme quattro frammenti e li accende, provocando una piccola vampa. ‟La polvere da sparo non muore mai… qui ce n’è a tonnellate… Dove credi che l’abbiano trovata la dinamite negli anni Sessanta in Alto Adige?”.
Ne viene fuori di roba. Ossa anche, in continuazione. Basta un solo anno di guerra a vomitare resti per novant’anni. Il mitico Ferruccio Tarmena, ex partigiano Stoppa, anni ottantasei, tempo fa ha trovato un elmo tedesco e quando l’ha tirato su gli è venuta dietro anche la testa. Ghisa, ferro, bronzo, acciaio. Reticolati, baionette, medicinali, bottiglie, gavette, barche. Una tragica abbondanza, e anche una grande saggezza nel riciclo di questi materiali. Grattugie dalle gavette, scaldaletto da bottiglie, fioriere da elmetti, abiti da lavoro da divise, irroratori di verderame da lanciafiamme, pallini da caccia dal piombo delle contraeree. Giovanni Callegari, che coordina questi ricuperi: ‟Il luogo della grande vittoria campale della stato unitario ha anche rinsaldato l’unità delle genti del Piave. Prima eravamo divisi da antagonismi paurosi, tra riva destra e sinistra. Oggi tutti dicono: sono del Piave”.

Paolo Rumiz

Paolo Rumiz, triestino, è scrittore e viaggiatore. Con Feltrinelli ha pubblicato La secessione leggera (2001), Tre uomini in bicicletta (con Francesco Altan; 2002), È Oriente (2003), La leggenda dei monti …