Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. Il tormento di Clinton, costretto a rinunciare al sogno di “Billary”

08 Settembre 2008
Sono riusciti davvero i Clinton a salvare il soldato Obama dalla sconfitta che i sondaggi inaspettatamente, dopo mesi di euforia Democratica per l’avvento del nuovo condottiero, fanno intravedere? Lo volevano davvero salvare? Gli hanno realmente, con feeling come si ama dire oggi, consegnato le chiavi di quel partito democratico che essi considerano ancora il proprio feudo, oppure, come illustra un sarcastico cartoon su Usa Today, è lui che gliel’ha dovuta strappare di mano? Osservavo quei due formidabili ragazzi sessantenni sul podio del Pepsi Center, l’ex presidente, il solo Democratico capace di spezzare il dominio dei repubblicani con i Reagan e la famiglia Bush dal 1980 a oggi, e la senatrice che avrebbe voluto succedere al marito salvato proprio da lei, con il cinico stoicismo della moglie in politica, dal disastro Lewinsky, mentre pronunciavano i discorsi in prime time, nell’ora di massimo ascolto tv. Ammiravo l’espressione orgogliosamente e teneramente coniugale con la quale i due si guardavano mentre l’altro parlava, coniugi perfetti e fusi nella passione per il potere, come se non conoscessimo la loro storia. Era impossibile, per chi cominciò a vederli all’opera 20 anni or sono nella più oscura provincia sudista, al suono della loro canzone di guerra Don’t stop thinking about tomorrow dei Fleetwood Mac, vedere tra le righe e gli sguardi il senso della loro bruciante amarezza. Se si leggono bene i loro discorsi, senza la coreografia fatta per la tv, le battute studiate per l’ovazione e la scelta del solito tailleur pantalone che gli assistenti di Hillary avevano fatto sfilare in scena con le grucce in quattro colori diversi, azzurro, grigio, verde e arancione, per scegliere quello che più le donava, si ritrova l’essenza del clintonismo, quello che li ha resi adorabili quanto insopportabili: il culto della propria grandezza, il pronome personale al centro di tutto, «io», «noi», «io», «noi», Billary forever. E se ora vi concediamo di votare per Obama è perché Obama ha sposato le nostre posizioni politiche, non il contrario, sul ritiro dall’Iraq, da fare in tempi «ragionevoli» (come lei aveva sempre sostenuto) e sull’assicurazione sanitaria da estendere a tutti, imponendola ex lege, e non per scelta (come lei aveva sempre sostenuto). è sempre amaro, per i più anziani, «passare la torcia» a una nuova generazione come recita il versetto preferito del Vangelo secondo i Kennedy, ma soprattutto lo è per chi, come i Clinton, non aveva nessuna intenzione di passarla. è stato crudelmente più facile per i Kennedy, ai quali il destino l’ha strappata di mano tranciando la catena della successione, ma è assai più doloroso per la ditta Bill&Hillary che ha dovuto accettare il risultato di un gioco nel quale si credevano imbattibili: la politica. E concedere, nei due discorsi di Clinton (lei) martedì sera e Clinton (lui) ieri sera il loro partito a un uomo che per sei mesi avevano continuato a deridere in pubblico come «non preparato per fare il Presidente», a raccontare come un campione di nicchia, un eroe dell’America nera e delle "teste d’uovo" con titoli di studio, e in privato come «un simpatico ragazzo che non potrà mai vincere le elezioni». Il lungo prologo del dramma è finito, per questa Convention democratica che sta annaspando nella palude di quella moderazione bipartisan che tutti i cittadini dicono ai sondaggisti di volere, ma che poi tradiscono nei seggi premiando invece la faziosità, verso il gran finale di stasera nel bizzarro tempietto di gusto romano-ionico eretto per Barack Hussein Obama. Lo ha chiuso il discorso di Bill, dell’ex presidente, dopo la certificazione numerica della sconfitta di sua moglie fatta per acclamazione, grazie al gesto generoso della senatrice che ha sciolto i propri delegati in un sacrificio sull’altare dell’unità di partito, per evitare un’imbarazzante conta che avrebbe certificato l’esiguità del vantaggio del vincitore. Tutti e due, i Billary uno e bino hanno fatto bene il loro dovere di commilitoni del soldato Obama, ma nel discorso di Hillary brillava un’omissione ovvia che gli avversari hanno subito gioiosamente notato: mancava la certificazione della capacità di Obama di essere presidente dal primo giorno. Una dimenticanza specialmente vistosa, ora che i Repubblicani adoperano proprio gli spot elettorali più feroci della signora, con la telefonata alla Casa Bianca alle 3 del mattino per annunciare una crisi gravissima, alla quale l’inesperto senatore non avrebbe saputo che cosa rispondere, per demolirlo. Il passaggio della torcia avverrà comunque, stasera, sempre l’ultima sera delle Convention. Assisteremo al rituale trionfo del cesare vittorioso davanti al quale i generali e i legionari che lo hanno combattuto abbassano le insegne e tributano fedeltà nella guerra finale. Ma l’impero dei Democratici è una terra inquieta, dove può addirittura circolare la voce incredibile che William Jefferson Clinton diserterà il trionfo, trasformando tutte le belle parole, gli appelli, le punzecchiature all’avversario McCain in fiction d’occasione. Non è possibile, non può essere. L’assenza sarebbe più di uno sgarro, una pugnalata al nuovo cesare che neppure il bel discorso dello stesso "Bubba" Clinton ieri sera potrebbe far dimenticare. Comprensibile, forse, se si pensa alla straziante ironia di questi Clinton che dovrebbero far vincere colui che hanno fatto di tutto per sconfiggere, ma micidiale. Deve essere l’ultimo presidente democratico del XX secolo, Clinton, a consegnare lo scettro del partito nella "Obama night", la notte che deve appartenere soltanto a Obama. Ma, dopo avere visto le Olimpiadi di Pechino, sappiamo che fra le loro molte virtù, gli americani non hanno quella di sapersi passare fluidamente il testimone.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …