Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. Il continente perduto

23 Settembre 2008
Sepolta sotto il frastuono inconcludente della "guerra al terrore", e ignorata da una campagna elettorale che i repubblicani sono riusciti a trasformare in un concorso di bellezza, un’altra disastrosa eredità della Presidenza Bush sta per cadere nel grembo del suo successore: la perdita dell’America Latina. Si deve tornare ai decenni roventi della rivoluzione castrista da esportare e dell’omicidio Allende per trovare tanta distanza, tanto odio e reciproco disprezzo fra due continenti che vedono ogni giorno allargarsi il golfo del Messico che li separa e assottigliarsi l’istmo di Panama che li unisce. Anche oltre i segnali e i dispetti diplomatici che gli Usa si stanno scambiando con Venezuela e Bolivia le due nazioni dove l’antiamericanismo (del Nord) è la dottrina e la politica ufficiale dei presidenti Chavez e Morales, il rancore e il risentimento verso Washington e i "gringos" non sono mai stati tanto diffusi e violenti. Da Bill Clinton, George Bush aveva ereditato una sola Cuba. Da Bush, Barack Obama o John McCain ne erediteranno molte di più. Il Nicaragua tornato all’uomo che Reagan e Bush credevano di avere eliminato per sempre, il sandinista Daniel Ortega. Il Venezuela del sempre più scatenato Chavez; la Bolivia di Evo Morales. Senza contare il Brasile di Lula, il Perù, dove la sfida del "no global" Ollanta Humala, sconfitto per poco alle presidenziali, si ripresenterà puntuale e il Messico, la grande trave meridionale del sistema di sicurezza nordamericano, furibondo per quella demenziale grande muraglia che i repubblicani xenofobi stanno innalzando alla frontiera. L’ironia storica di questa decomposizione di un rapporto che sembrava destinato a fiorire dopo la fine della Guerra fredda, è che la "marea rosa", come è stata chiamata, di antimericanismo nasce proprio dal successo di quella democratizzazione nel mondo latino che sembrava l’obbiettivo fondamentale della politica statunitense. Chiuso il capitolo dei generali despoti e torturatori, puntellati o tollerati da Washington nel nome della realpolitik per garantirsi il proprio retroterra, il tempo della democrazia elettorale era potuto sorgere. Ma la democrazia, e la libertà di voto, hanno il difetto di essere per loro natura imprevedibili e di premiare la maggioranza. E poiché in tutta l’America latina, con la sola eccezione parziale del prospero Cile, la maggioranza soffre la spietata dittatura economica della minoranza e vede nei "gringos" i burattinai e gli sfruttatori di questa iniquità, il risultato sono governi che devono cavalcare i sentimenti di chi li ha eletti. Su queste fondamenta strutturali, si innesta, come colpo di grazia, quella tragedia dell’11 settembre che fissa lo sguardo dell’amministrazione Bush in una "tunnel vision", in una visione ristretta del mondo come campo di battaglia fra le forze del Bene e le schiere del Male, incarnate dal terrorismo mussulmano. L’America Latina, con i suoi quasi 600 milioni di abitanti fra il Rio Grande e la Terra del Fuoco, viene relegata in una sorta di irritante sottoscala, al quale dedicare qualche frettolosa (e disastrosa) visita e qualche formuletta. Il serbatoio, sempre ricchissimo ovunque, dall’Argentina al Nicaragua, di antiamericanismo viene lasciato fermentare, salvo poi scoprire con orrore che Chavez, tormentato da una situazione economica interna che neppure il balzo del petrolio ha risanato, non si limita a dire che «Hitler al confronto di Bush è un poppante», ma riesuma il vecchio libro di Fidel in edizione post comunista e accoglie i bombardieri strategici di Putin e, tra pochi giorni, una flotta da guerra russa. Dalla "dottrina Monroe" del 1832, che riservava agli Stati Uniti l’emisfero americano alla fallimentare "dottrina Bush", lo sgretolamento del prestigio e del controllo nordamericano sul sud si sta accelerando come mai era accaduto, appeso ormai soltanto al rapporto di ricatto e controricatto che il petrolio venezuelano esercita, sia sui venditori, che non possono fare a meno di venderlo al nemico, come sul nemico che non può fare a meno di comperarlo. Ben altre intelligenze, e ben altre visioni del mondo a 360 gradi, sarebbero state necessarie, a Washington, per definire una politica verso la nuova America Latina emersa dai peronismi, dalle guerriglie e dai despoti, ed è lecito chiedersi di quali nuove sensibilità sarebbero capaci, domani, un anziano senatore che ancora si nutre di reducismo bellico anni ‘70 e una giovane governatrice cresciuta al capo opposto del continente, in Alaska. Ma questo è il problema di domani. Oggi, basti guardare quel ritorno, fra parodia e tragedia, di armi russe nel cortile di casa del Nord America dal quale erano state espulse quasi 46 anni or sono, per misurare quanto enorme sia stato il fallimento del mito neo con di un "Nuovo Secolo Americano", che non è più americano, neppure in America.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …