Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. La Palin inciampa sulla politica estera

23 Settembre 2008
Con lo sguardo teso e il tono imparaticcio di chi ha dovuto fare la notte prima degli esami, la più celebre sconosciuta di questa straordinaria stagione elettorale americana, Sarah Palin, sopravvive al primo contatto diretto con un’intervista televisiva e fa il suo bravo compitino da sei. L’infarinatura di nozioni rigurgitate e di formule impartite dai tutori spediti con fiato grosso da Washington in Alaska è evidente, ma il pubblico al quale lei si rivolge e che la ha eletta a nuovo idolo dello show elettorale, non chiede una Kissinger con il tacchi a spillo e il rimmel. Le chiede di essere un un’immaginetta, una madonnina laica, un’action figure ben confezionata con la quale giocare, pur di fermare la minaccia dell’uomo nero Obama. Si scandalizzino pure gli opinionisti e gli avversari, quando lei dimostra di non sapere che cosa sia la "Dottrina Bush", di fronte alla domanda del pur soffice interlocutore che la guardava perplesso come un professore guarda una scolaretta volenterosa ma un po’somarina. O quando collega l’Iraq con l’11 settembre, come nessuno osa più fare. Per gli elettori, come per le elettrici, di quella piccola America, di quella enorme e ignorata provincia americana che deciderà la Casa Bianca lontana dalle grandi e peccaminose Sodoma metropolitane, quel suo essere ruspante, quel suo avere stentatamente preso una laurea con la media del C, il minimo, e avere cambiato cinque università prima trovarne una, nell’Idaho, che accettasse finalmente di dargliela, sono elementi di forza, non di debolezza. Anche Bush si vantava di essere stato sempre uno studente da sufficienza minima, esattamente come è la maggioranza degli studenti. Anche lei storpia la pronuncia di Iraq e Iran, chiamandoli «Ai-raq» e «Ai-ran» esattamente come Bush si è sempre ostinato a dire «nu-cular» anziché «nu-clear» perché questo sembrava renderlo «one of the boys», uno di noi. La magnifica macchina della propaganda elettorale repubblicana sta riuscendo a trasformare questa elezione, come ha detto lo stratega capo di McCain, in una «scelta fra personalità, non fra problemi», e Sarah Palin, con la sua leggenda da ultima frontiera riletta in chiave post-femminista, è riuscita a spodestare il culto di Obama con il culto di Sarah, secondo la provata logica commerciale del prodotto nuovo che scalza dagli scaffali quello più vecchio. Se poi palesemente non sa di che parla, perché parla di cose che non sa, avvitandosi in una risposta sul conflitto russo-georgiano dalla quale non si capisce se lei sarebbe pronta a scatenare una guerra nucleare contro Mosca (uno dei suoi consiglieri principali era stato consulente del presidente georgiano Saakashvili) per difendere una Georgia ammessa nella Nato, o se invece «l’azione militare debba essere una possibilità, ma soltanto l’ultima», non turba le masse di Palinistas, di donne che si identificano in lei e che di Nato, deterrenza, Ossetia, Nagorno Karabakh, trattati internazionali, sanno ancora meno. Sarah, la madonnina dei ghiacciai, non deve conquistare teste d’uovo ed editorialisti del New York Times. Deve limitarsi a non commettere errori fatali, e trincerarsi dietro le frasi fatte e quelle artificiali carinerie che piacciono al pubblico dei telespettatori. Come chiamare ripetutamente l’intervistatore Charles Gibson, «Charlie», da amica, da mamma, anche se non lo aveva mai incontrato prima. Il compito della signora è quello di sopravvivere ai 54 giorni che mancano al voto senza gualcire la confezione. Per questo la Palin è stata tenuta lontana da quei lupi del giornalismo che potrebbero chiederle come mai lei si vanti a ogni comizio di avere respinto il progetto di costruire «un ponte verso il nulla» in Alaska che sarebbe costato 230 milioni di dollari, per raggiungere un’isola abitata da meno di 100 persone, quando in realtà non è vero, il progetto era già stato cassato dal Parlamento, e lei incassò comunque quei 230 milioni di lardo pubblico. I "lupi" dei media potrebbero chiederle conto del disastroso bilancio del minuscolo comune da lei governato, l’ormai celebre Wasilla, in Alaska. Domandarle come mai ora ammetta, nell’intervista, che nel riscaldamento della Terra ci possa essere «la mano dell’uomo» e dunque «qualcosa vada fatto», dopo che aveva sempre ridicolizzato i catastrofisti dell’effetto serra. E sapere se davvero lei creda che la guerra in «Ai-rak», sia parte di «un piano voluto da Dio». Ma tutto il gomitolo di contraddizioni, graziose bugie e di ipocrisie è difficilissimo da dipanare, come sta scoprendo Obama, senza offendere le donne americane, senza creare la sensazione di un disprezzo intellettualistico verso queste «Wal Mart mom», queste mamme che sono costrette a fare spesa nei supermercati più desolanti ma anche più economici d’America come i Wal Mart, dove tonnellate di ciarpame cinese permettono a loro di tenere in piedi famiglie e bilanci. Il brivido di orrore che alcuni provano pensando che questa donna possa, un giorno e molto presto, assumere la guida degli Stati Uniti d’America, diventa un sussulto di simpatia da parte di tutti coloro che si sono trovati impalati davanti alla cattedra, frugando disperatamente alla ricerca di una risposta che non sapevano. Forse Barack Obama vincerà, perché è l’America come vorrebbe essere. Ma Sarah è l’America com’è. Ed è tanta.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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