Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. La brillantina di Reagan più forte delle idee

26 Settembre 2008
In quest’ora storica e solenne per le sorti dell’America e del mondo, forse non è il caso di stare a ricordare il caso celebre di Lyndon Johnson e la gallina, ma a poche ore dal primo scontro in diretta, fra l’uomo troppo nuovo e l’uomo troppo vecchio (che avrebbe voluto rinviarlo), l’esperienza di quasi mezzo secolo di dibattiti televisivi ammonisce a guardarli per quello che sono davvero: non un duello di programmi politici, ma un concorso di bellezza. Che c’entri una gallina con quel supremo atto di partecipazione democratica che è il (quasi) libero voto dei cittadini, vedremo poi. Ma mentre i maestri dello spin, pagati anche un milione per quelle bugie organizzate chiamate campagne elettorali, si batteranno per «dare il giro giusto», appunto lo spin come la biancheria sporca che rigira nella lavatrice, e sostenere che il loro campione ha sepolto l’avversario, la storia ci insegna che non sono i proclami, i programmi, i manifesti, le mendaci promesse, le frasi fatte messe in bocca ai candidati, a creare quelle impressioni che spingeranno i 100 milioni di telespettatori previsti a formarsi un’opinione tante superficiale quando indelebile. Bush, fu detto più volte, parve il migliore, di fronte a Kerry, con il quale andare una sera in un saloon a farsi una birretta o due. L’«ombra delle cinque del pomeriggio», quell’alone di barba corvina riscresciuta che imbruniva il volto di Richard Nixon allergico al cerone e lo faceva apparire vagamente "sporco" - appunto Dick lo Sporco - accanto al sorriso giovanile e incosciente di Jfk sotto il ciuffo di famiglia, pesò più della evidente superiorità di Nixon in materia di politica e di economia rispetto al simpatico imparaticcio dell’impreparato Kennedy. Il Brylcreem spalmato con generosità tra i capelli tinti del quasi settuagenario Ronald Reagan, che fece inorridire i critici, fu invece un souvenir di tempo perduto, un omaggio silenzioso a quella generazione di uomini che erano cresciuti impomatandosi i capelli negli anni di Elvis e di Jimmy Dean, prima di perderli, e che riconobbero nella sua chioma il richiamo di una comune nostalgia umana. Sono la battuta che uccide o suicida, la gaffe, lo sguardo, l’acconciatora, i tic, il body language, il linguaggio inconscio del corpo, i segni che quell’occhio che non sbatte mai le palpebre - la telecamera - coglie sempre e che i consumatori finali, gli elettori, assorbono e interiorizzano. Soprattutto se questo linguaggio dei segni arriva a rafforzare i preconcetti e i pregiudizi che il pubblico già possiede, perché i dibattiti raramente rovesciano la partita, semmai solidificano il risultato. Jerry Ford, presidente nel 1976, aveva l’ingiusta fama di essere un cretino. Quando spiegò, nel duello contro Carter, che «L’Europa Orientale e la Polonia non erano sotto il controllo dell’Unione Sovietica», disse una cretinata e sembrò confermare il suo essere un cretino. Carter vinse e fu un pessimo Presidente. Bush il Vecchio, dietro la finzione politica del suo essere un texano adottivo cresciuto fra il puzzo del petrolio e lo sterco della mucca, era un patrizio snob della costa atlantica. La sua morte elettorale battè la ali quando a Richmond, dibattendo contro Clinton nel 1992, fu sorpreso a guardare nervosamente l’orologio, con l’aria di uno che si stesse rompendo a morte e non vedesse l’ora di andarsene a inseguire palline da golf o sui suoi motoscafi veloci. La sua fama di impaziente e nevrastenico (si scoprì poi che soffriva di ipertiroidismo grave) venne scolpita da quel gesto pur così innocente, e l’impressione che lui nulla sapesse della vita quotidiana della gente alle prese con l’ennesima recessione e crisi finanziaria, si coagulò quando non seppe dire quanto, secondo lui, costasse un cartone di latte. Come se un Presidente americano dovesse andare a far la spesa per le uova e il latte e la fila alla cassa coi sacchetti di plastica. La figuretta da super peso leggero del vice scelto dallo stesso George H. Bush (il papà), Dan Quayle, fu soffiata via dal vice opposto, il senatore democratico Bentsen, che gli rispose, quando lui tentò un acrobatico confronto fra se stesso e John Kennedy: «Senta, io Kennedy l’ho conosciuto, e lei non è Kennedy». Il che non impedì a Quayle di vincere al seguito del primo Bush, perché la colpa che l’elettorato americano più ruspante e quindi più numeroso non perdona è il sussiego intelletualistico e sprezzante di chi si crede migliore. Nel 2000, lo sventurato Al Gore, quello che perse elezioni che non aveva perso contro Bush il giovane, si abbandonò a una pantomima di sbuffi, occhi al cielo, braccia allargate in segno di disperazione, ascoltando l’avversario repubblicano esibire quella ammirevole incompetenza che avremmo visto rifulgere nei suoi quasi otto anni di governo del mondo e della nazione. Gore risultò odioso e professorale, come l’insegnante irritato di fronte al più somaro dei suoi scolaretti. Ma almeno non fece la figura del pesce surgelato che un altro democratico, Michael Dukakis, fece quando l’intervistatore gli chiese come avrebbe reagito se avesse trovato la moglie vittima di uno stupratore con intenti anche omicidi, e lui si imbarcò in una complessa analisi della legge su stupri e omicidi, di fronte un pubblico sbigottito che si attendeva una umana reazione di collera e di legittima difesa. Nessuno, e certamente non Obama e McCain, il primo troppo avvocato harvardiano attento a non dire nulla che il giudice potrebbe cassargli, l’altro troppo aggrappato allo scudo del suo passato di martire di guerra, potrà raggiungere mai la disinvolta e deliziosa impudenza del vecchio Reagan, che sapeva stroncare le critiche con un sorriso, una battuta e la capacità professionale di proporla con i tempi giusti. «Non permetterò mai che la giovane età e l’inesperienza del mio avversario siano usate contro di lui», rispose a chi obbiettava ai suoi quasi 70 (un fanciullo, rispetto al 72enne McCain), rivoltando per sempre l’arma della senescenza che Walter Mondale voleva brandire. Né Obama né McCain sapranno mai abbassare la voce e arrochire la gola come Clinton riusciva a fare quando mormorava alla platea televisiva, fissando l’obbiettivo con occhio umido: «I feel your pain», sento come mie le vostre sofferenze, mentre Bush il Vecchio guardava l’orologio. Nessuno, anche se gli scambi di spot e di accuse sembrano scendere ogni ora a livelli più miserabili, arriverà mai più ai trucchi di Lyndon Johnson, che un giorno accusò il suo rivale di fare sesso con le galline. Un’accusa tanto infamante quanto falsa, che il poveretto dovette smentire balbettando che lui, mai, mai, aveva violentato un pollo. Johnson, come gli elettori, rise. Ma l’immagine del distinto uomo politico che rincorreva le galline sull’aia rimase e lo distrusse. Johnson, proprio perché sapeva bene quali trappole si nascondano in questi dibattiti, rifiutò poi sempre, come presidente, di partecipare a dibattiti. Forse sapeva che chiunque, nei dibattiti, può fare la figura del pollo.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …