Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. Il ruggito dei leoni tra Shakespeare e Disney

30 Settembre 2008
Aleggiava un odore acre, nella gabbia del primo duello presidenziale, la paura del vecchio leone che teme di essere sbranato dal giovane rivale più forte e robusto. Lo scontro fra il repubblicano John McCain e il democratico Barak Hussein Obama, finalmente messi uno di fronte all’altro dopo mesi di tiri d’artiglieria a distanza, non è altro che l’eterno duello fra le generazioni che si battono per il potere sul branco. Con noi che dal basso assistiamo incerti, inorriditi e affascinati ai loro ruggiti, fra la voglia nel nuovo e la nostalgia del vecchio. A metà fra Shakespeare e Walt Disney. McCain e Obama, quali che siano il giudizio o il pregiudizio che oggi spingono a dare la vittoria all’uno o all’altro nei primi sondaggi a caldo post dibattito che premiano il più giovane, erano la incarnazione non di due partiti, ma di due epoche, di due età americane arrivate finalmente e inevitabilmente a quell’appuntamento con il XXI secolo che l’11 settembre 2001 aveva rimandato. Con i suoi sorrisetti tirati su una bocca contratta che spiccava nel pallore del viso, quel commovente tettuccio di richiamati candidi sopra la calvizie, i gesti delle braccia resi disperati e insieme teneri dalle bastonate dei torturatori alle spalle che lo costringono a muoversi come un’eroica bambola spezzata, McCain sudava la paura del vecchio per l’animale più giovane. Cercava di nasconderla dietro il linguaggio aggressivo e brontolone che serve soltanto a esaltare la sua fragilità umana. ‟Ho guardato negli occhi Putin e ho visto tre lettere, K-G-B” ha sparato ed è un peccato che il composto, sempre frigido rivale non gli abbia chiesto quanti occhi abbia Putin, per potervi leggere tre lettere. McCain non è troppo vecchio a 72 anni, come Obama, con i suoi 47, non è troppo giovane. A quasi 70 anni, Ronald Reagan irradiava giovinezza e ottimismo, dal palcoscenico dei suoi dibattiti, faceva sognare albe e battesimi, quanto McCain fa pensare a tramonti ed esequie, evocate dal suo affettuoso cenno al coetaneo Kennedy di nuovo ricoverato per il tumore al cervello. Un bel pensiero, ma un pensiero tipico di chi, nel cortile della casa di riposo con il plaid sulle ginocchia, comincia a sentire, nella morte del vicino di letto, il presagio della propria. E alla notizia di un funerale domanda subito: quanti anni aveva? La sua, di "Re Leone" agitato e brontolone, è una vecchiaia interiore, aggrappata alla sempre discutibile virtù dell’esperienza. E’ l’anzianità di una generazione che ha dato tutto e vorrebbe ora, per un ultima, gloriosa volta, fermare il tempo. Si vede ora, sette anni dopo, come le Torri Gemelle, con la forza schiacciante di un male assoluto che l’America non aveva mai veduto, non avessero "cambiato tutto", come voleva il luogo comune. Avevano al contrario congelato tutto, paralizzato l’evoluzione di un Paese che stava inesorabilmente cambiando pelle, tra immigrazione legale o illegale, integrazione razziale, matrimoni misti, mobilità, avviato verso quella multi etnicità che aveva sempre promesso, senza mai davvero mantenerla o manifestarla nelle stanze alte di un potere rimasto per 232 anni sempre nelle mani dei bianchi protestanti (meno Kennedy). McCain sta facendo bene la sua parte, come ha dimostrato venerdì sera, che è quella di essere il curatore fallimentare del crac dei repubblicani e soprattutto di Bush che ha avuto il coraggio civile di denunciare come torturatore di prigionieri. Ma sa di essere l’ultimo capitolo di una storia, non il primo di una nuova, anche oltre gli ovvi limiti anagrafici. E meno bene, almeno a giudizio di questo osservatore, sta facendo Barack Obama nell’interpretare con il cuore quel bisogno viscerale di adeguamento della classe politica al "paese reale", come si sarebbe detto nel politichese italiano, che le legioni di giovani elettori mobilitate per lui alle primarie avevano manifestato. Il colore della sua pelle, la diversità radicale del suo nome, la eccezionalità delle sua storia personale e genetica fra Kenya, Hawaii, Indonesia, Kansas, Chicago, sembrano imbrigliare la sua personalità e mettere la sordina alla sua intelligenza, secondo la triste legge elettorale che punisce chi sembra troppo bravo e quindi risulta indigesto alla media di noi somari. McCain si muoveva come chi ha paura del rivale. Obama si comportava come chi ha paura di sé stesso, di sembrare quello che è e che si sforza troppo di applicare il famoso monito di Reagan ai politici, ‟se riuscite a fingere di essere sinceri, vincerete”. Si ricordava di fissare ogni tanto l’obbiettivo, come insegnano nei corsi accelerati per comparsate nei telegiornali, di usare nomi propri, confidenziali, Jim per il moderatore, John per l’avversario McCain che invece non lo chiamava mai per nome, come se il nome evocasse, secondo superstizioni ancestrali, lo spirito della sconfitta e desse forza al nemico. Il vecchio leone intonacato per nascondere le cicatrici dei suoi interventi al viso e al collo non ha mai neppure osato guardare negli occhi il giovane pretendente al trono, secondo un atteggiamento che gli etologi, gli studiosi di comportamenti animali, conoscono bene e tradiscono, fra i mammiferi superiori, la sconfitta o la soggezione. Ma ancora una volta, Barack Obama non ha sfoderato le unghie, ha fatto più "shadow boxing", mimando i colpi, anziché affondarli e ricadendo in quel balbettìo e in quel ritmo sincopato, rischiosamente "hip hop", dell’eloquio che lo fa apparire troppo cerebrale, troppo attento a non scivolare su un verbo o un aggettivo. Mentre gli occhi, nei momenti difficili, si rivolgono all’interno, ripiegano sul cervello e si assentano nella ricerca della formula giusta. Ma se sono lui e la sempre più frastornata e risibile Sarah Palin, che vedremo all’opera nel prossimo dibattito contro un alto anziano stizzoso ma questa volta dalla parte democratica, Joe Biden, il centro focale di tutto il discorso pubblico e privato in America, il senso che questa sarà un’elezione non soltanto di partiti o slogan, ma di generazioni e di epoche, è ovvio. Non è affatto certo che i nuovi leoni e leonesse potrebbero fare meglio dei vecchi capi branco. E’ certo invece che la faccia del potere americano cambierà per sempre. La candidatura di Obama e poi la scelta, pubblicitariamente efficace, di Miss Alaska, hanno già cambiato la storia americana. Non è immaginabile, nel 2012, una corsa alla Casa Bianca che non comprenda almeno una donna, o un afro americano, o un latino. E’ stata sfortuna di McCain se il crac finanziario ha spazzato via i turiboli e gli anatemi delle prediche "valoriali", le anime devote contro sodomiti e peccatori e abortisti che i repubblicani sfoderano quando vogliono dividere le coscienze e quindi vincere le elezioni. Ma di fronte a pensioni che si squagliano, a banche il fallimento, a posti di lavoro che volano, a case pignorate, importa assai poco sapere se Jim e John si sposino, se la figlia del vicino intenda abortire o se le cellule di un embrione surgelato saranno utilizzate per coltivare altre cellule staminali. Quando il branco ha fame e ha paura, non sono le fiamme dell’inferno a preoccupare, o le due dozzine di soldati americani che anche in questo settembre hanno lasciato la vita in Iraq, forse ignorando di avere vinto. ‟Lui non capisce”, he does not understand, ripeteva per sette volte, una volta in media ogni cinque dei minuti ai lui concessi il vecchio leone, stringendo le labbra, ridacchiando male, come ridono i vecchi quando non sono allegri, facendo smorfiette di fastidio davanti alle contestazioni fin troppo secchione, da "brief" di avvocato, di Obama. Quel suo ossessivo martellare su ‟Io ho visto, io ho fatto, io so, io ho partecipato”, mentre lui, quello lì, l’uomo nero, il ragazzotto magro con la schiena non ancora curvata dal tempo ‟non capisce niente” non era uno slogan. Era il grido di un uomo che in realtà voleva dire "voi" non capite, voi spettatori, giornalisti, opinionisti ed elettori che osate contemplare la empietà di dire a me, a uno che ha perduto la propria giovinezza facendosi rompere le ossa per l’America, che è arrivato il momento di passare la fiaccola a un’altra generazione.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …