Vittorio Zucconi: Presidenziali USA. Obama in vantaggio. Duello all’ultimo voto

05 Novembre 2008
Negli stati roccaforte repubblicani, come l’Indiana, come gli stati del profondo Sud i distacchi sono minimi, mentre nelle terre incerte o più colorate di blu, il colore dei repubblicani, ci sono sondaggi di usciti che raccontano di una disfatta repubblicana. Non sono voti, ancora, non ci sono corone da assegnare, ma l’ora dell’evento che sembrava impossibile è non soltanto vicino, ma quasi tangibile. Il vento dei primi exit polls a favore di Obama sta travolgendo la notte. È battaglia in Virginia e il democratico appare in vantaggio anche nella Florida dei Bush. A Obama anche la Pennsylvania tradizionalmente democratica ma su cui McCain aveva puntato forte fino alla fine.
La giornata con il cuore in gola e con i piedi doloranti, trascinati nelle file per votare di almeno 130 milioni che hanno voluto soffrire per poter dire ai figli e ai nipoti «io c’ero» diventa, alle 19 di ieri sera, la notte di una speranza colossale. Ventiquattr’ore vissute da noi negli Stati Uniti e da milioni oltre gli oceani non come un’elezione, ma come un’emozione, che l’avvicinarsi della notte è sul punto di esplodere, suscitata da una democrazia ritrovata, che sembrava apatica e cinica e non è mai stata così viva. Un giorno e una notte aggrappati a sondaggi, profezie, paure, briciole di risultati e certezze virtuali di vittoria per Obama che si scontrano contro a realtà dura di indecisi, terrorizzati o timidi. Divisi ferocemente da paure e da speranze, ma travolti insieme nella vertigine di un evento troppo grande per essere capito mentre lo viviamo.
Tutti ricorderanno dov’erano e che cosa hanno fatto ieri, se sono stati fra coloro che potranno dire ai nipoti di avere fatto la storia o di averla fermata. Nessuno ricordava, neppure i ragazzi oggi anziani che avevano lavorato nei seggi del 1960 quando Kennedy battè Nixon per appena 180 mila voti a Chicago, la processione paziente di uomini e donne, la marea di afro americani e di «latinos», coloro che potrebbero avere in mano le chiavi della Casa Bianca, molti costretti a rinunciare a un giorno di paga, che si è rovesciata nelle strade di stati apparentemente scontati per l’uno o per l’altro, come la Georgia e la North Carolina delle lontane piantagioni di cotone, come l’Ohio degli altoforni freddi, come la Florida dei vecchi pensionati ebrei del Nord, gli «uccellini della neve», che hanno trascinato i girelli, i bastoni, le carrozzelle a motore, per esprimersi, magari sbagliando. Forse distratti da Danny DeVito, l’attore che recitava e scherzava, davanti a un seggio in Florida, per rendere più sopportabile l’attesa. A Palm Beach, isola di lusso per i pensionati ricchi, un elettore su sette si è sbagliato a votare, e i primi sondaggi di uscita davano i due candidati separati dal nulla, meno dell’uno per cento.
Soltanto con pasticci inevitabili nelle macchinette e nei terminali per il voto, che hanno costretto presidenti di seggio, governatori, giudici a intervenire per prolungare in alcuni casi l’orario di apertura e a scompaginare i castelli di carta degli exit poll.
Ogni adulto ricorderà per sempre dov’era, la notte scorsa, quando la prima network si è buttata nella proiezione del vincitore oltre i 270 voti elettorali necessari per conquistare la Casa Bianca, un momento che resterà fissito nel ricordo come lo sbarco sulla Luna, l’omicidio Kennedy, la caduta del Muro o, per noi italiani, l’assassinio di Aldo Moro. C’è stata una sequenza, martedì mattina in un seggio elettorale dell’Illinois che racconta la meraviglia di questo giorno. Abbiamo visto entrare in un seggio di Chicago il signore e la signora Barack e Michelle Obama, due persone di colore accompagnati dalla figlia più grande che porta il nome della madre bianca di Barack, Malia Ann. Li abbiamo visti accostarsi alle valigette pieghevoli con alucce di plastica per la privacy che funzionano da urna elettorale e lentamente, con pignoleria da avvocato che rivede un contratto, compilare il lenzuolone scheda che avevano davanti, mentre Malia Ann saltabeccava scuotendo i suoi riccioli «rasta», impaziente, eccitata, divertita e alla fine sbadigliando annoiata tra il papà e la mamma, come una qualsiasi ragazzina di dieci anni.
La straordinarietà di quella scena era nella sua normalità. Sembrava del tutto naturale che dei due potessero compilare quella scheda, un atto che a loro sarebbe stato proibito in metà degli Stati Uniti, quando erano nati, nel 1961. Ci sembrava normale che, dopo averne conquistato il diritto in un duello contro la formidabile Hillary Clinton, Barack Hussein Obama potesse trovare il proprio nome al primo posto nella lista. Un «mestizo», un uomo chiamato superficialmente «nero», mentre è altrettanto «bianco» al 50%, un bambino allevato da due donne senza figure maschili dominanti, la madre, la nonna, poteva votare per sè stesso come presidente degli interi United States of America. Abbiamo visto tutti Obama inghiottire il magone, sforzarsi di non piangere ricordando «Toot», la nonna morta 24 ore prima di vedere quel discolo del nipote che lei aveva allevato, forse entrare alla Casa Bianca, perchè così come «i Kennedy non piangono», altrettanto un possibile presidente di colore non deve farsi vedere piangere.
Nella furia del duello finale, della valanga di negatività acida che fino all’ultimo minuto i repubblicani hanno scaricato con successo, perchè le campagne in negativo funzionano sempre, si rischia di dimenticare che la presenza di Obama in cima alle schede elettorali dovrà essere ricordata come il giorno nel quale la promessa fatta dai padri fondatori nel 1776, da Thomas Jefferson su suggerimento di un medico toscano emigrato in Virginia, Filippo Mazzei, che «tutti gli uomini sono creati uguali « è stata finalmente mantenuta e a un afro americano è stata data l’opportunità di guidare la nazione e di essere il volto vero di una popolazione che non è più bianca. In tutta la sua imbarazzante inadeguatezza, anche la valletta di McCain, la ex finalista di Miss Alaska è stata una candidatura femminile che ha emozionato la base del partito e che McCain è stato costretto a inventare per centrare il carisma e il glamour di Obama, scoprendo una donna ancora non pronta, ma destinata a restare e crescere, nell’universo della politica post elettorale, se dovesse perdere. Tutti e due, anche se la Palin non lo ammetterebbe, sono figli del deprecato Sessantotto, prodotti di una rivolta senza la quale nè una donna, nè un uomo, oggi avrebbero potuto contendersi il massimo ufficio della nazione.
Milioni di americani si sono mossi per votare «contro» Obama. Studenti universitari sono tornati a casa, dai loro college, per cercare di convincere i genitori, i nonni, a convertirsi all’ "Obamismo" e l’America è tornata a innamorarsi della propria democrazia, per odio o per amore. La democrazia americana è viva e cambia anche per noi, che le arranchiamo dietro zoppicando.

Vittorio Zucconi

Vittorio Zucconi (1944-2019), giornalista e scrittore, è stato condirettore di repubblica.it e direttore di Radio Capital, dove ha condotto TG Zero. Dopo aver cominciato nel 1963 come cronista precario a …

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