Umberto Galimberti: La nostalgia dell’innocenza perduta che leggiamo nello sguardo dei cuccioli

02 Febbraio 2010
Cosa ci lega agli animali domestici che ci teniamo in casa e curiamo con attenzioni che forse neppure lontanamente riserviamo ai nostri simili, oppure con una crudeltà che, se fossero praticate ai nostri simili, ci porterebbero subito, se non sempre dietro le sbarre, certamente in qualche casa di cura? Non certo la presunta antica parentela, perché nonostante una venerabile tradizione definisce l’uomo: ‟animale ragionevole”, dell’animale ci manca proprio il tratto caratteristico che è l’istinto. L’istinto, infatti è una risposta ‟rigida” a uno stimolo, per cui una mucca, che non reagisce di fronte a un pezzo di carne, non ha alcuna esitazione di fronte a un covone di fieno. Gli uomini non hanno ‟istinti”, ma, come ci ricorda una lunga tradizione che va da Platone a Freud, passando per Tommaso d’Aquino, Kant, Herder, Nietzsche, e, nel ‘900 Bergson e Gehlen, l’uomo ha solo ‟pulsioni”, spinte generiche a meta indeterminata. Anche il famosissimo istinto sessuale è così poco ‟istintivo” che, in presenza di una pulsione sessuale, l’uomo, a differenza dell’animale, può concedersi a tutte le perversioni, oppure a una sublimazione delle pulsioni che mettono capo al mondo dell’arte e della poesia. L’uomo non è un animale e perciò, come ci ricorda Nietzsche, ne invidia la felicità: ‟Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall’alba al tramonto e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piuolo dell’istante, e perciò né triste né tediato. Il veder ciò fa male all’uomo, poiché al confronto dell’animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello, giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l’animale, né tediato né fra dolori, che le vuole però invano, perché non lo vuole come l’animale”. La coscienza, infatti, espone l’uomo alla ricerca di una felicità che non può escludere l’apertura al senso, essendo questa apertura ciò per cui l’uomo è uomo e non animale. Ma l’apertura, dilatandosi, e avanti e indietro, iscrive l’uomo tra la nascita e la morte. Anche l’animale è iscritto in questi due limiti, ma non ne ha coscienza, quindi non vive la dimensione tragica di essere ad un tempo aperto al senso e in vista della morte che è implosione di ogni senso. Il tragico è dunque l’elemento costitutivo dell’uomo che la coscienza, dopo averlo costruito come io aperto al mondo, gli ricorda che è aperto per nulla. Subentra a questo punto la nostalgia dell’innocenza che l’uomo legge nello sguardo dell’animale capace di vivere il presente, a differenza dell’uomo che il presente neppure lo conosce, perché si alimenta solo di passato e di futuro. Ma passato e futuro appartengono a quella soggettività che, a secondo dei registri culturali, chiamiamo ‟anima”, ‟coscienza”, ‟io”, anche se un’altra soggettività più profonda e più decisiva ci abita. Ed è quella che ci prevede come funzionari della specie per la sua e non per la nostra economia. Questa seconda soggettività è il nostro rimosso, il vero nostro inconscio, che l’animale col suo sguardo ci riflette e ci richiama. Se interiorizzassimo questo sguardo dell’animale deporremmo le pretese esagerate dell’io, limiteremmo le nostre ansie di potere, i nostri eccessi di aggressività, la futilità delle nostre ire, delle nostre violenze, delle nostre guerre (gli animali, infatti, come ci ricorda Hegel, uccidono per nutrirsi, noi uomini invece per avere il riconoscimento del vinto). Smetteremmo di dire esageratamente ‟io” e incominceremmo quella pratica del ‟noi” che vuol dire solidarietà e amore. Questo dovremmo riuscire a leggere nello sguardo dell’animale. Non un’antica parentela, ma la consapevolezza della nostra caducità che, opportunamente interiorizzata, ci terrebbe lontani da tutti gli eccessi promossi dall’io, questo pseudonimo, come lo chiama Derrida, che abbiamo inventato per ingannare il più possibile lo spessore tragico della nostra esistenza: ‟Dammi, ti prego, una maschera ancora! - implorava Nietzsche una seconda maschera”.

Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …