Umberto Galimberti: Basaglia in tv, l'utopia dei matti

11 Febbraio 2010
Come faccio a sapere che malattia ha una persona legata in un letto di contenzione da 15 anni? Come faccio a sapere di che cosa soffre un individuo a cui sono stati tolti, oltre ai suoi abiti, tutti gli oggetti personali, in cui poter rintracciare una pallida memoria di sé? Eche dire di quanti, in occasione di una crisi, venivano immersi in un bagno d'acqua gelata, o sottoposti a elettroshock? Erano queste alcune domande che Franco Basaglia si era posto quando, escluso dalla carriera universitaria per le sue idee non proprio in linea con la psichiatria vigente, giunse a Gorizia a dirigere il manicomio di quella città. Marco Turco, regista della fiction televisiva, la cui prima puntata è andata in onda su RaiUno ieri sera, descrive con precisione, efficacia e commozione le pratiche di punizione, di controllo e persino di tortura che si praticavano nei manicomi in nome della scienza psichiatrica, ma soprattutto coglie e mette bene in evidenza che la chiusura dei manicomi era, negli intenti dello psichiatra veneziano, solo un primo passo verso una rivisitazione dei rapporti sociali a partire dalla "clinica", la quale, per tranquillizzare la società, non aveva trovato di meglio che incaricare la psichiatria a fornire le giustificazioni scientifiche che rendessero ovvia e da tutti condivisa la reclusione dei folli entro mura ben cintate. Entro queste mura Basaglia, prima della follia, incontrò la miseria, l'indigenza, il degrado, l'emarginazione, l'abbandono, la spersonalizzazione, a cui la follia non di rado si imparenta. Infatti la follia dei ricchi non si esprime con la "segregazione", ma tutt'al più con l'"interdizione", qualora intacchi gli interessi patrimoniali. E allora non è che per controllare e contenere questa miseria non s'è trovato modo migliore che renderla muta come "miseria" e farla parlare solo come "malattia"? Questo temaè messo bene in evidenza dallo sceneggiato televisivo che ha colto perfettamente l'intenzione di Basaglia secondo il quale: se la clinica ha messo il suo sapere al servizio di una società che non vuole occuparsi dei suoi disagi, non è il caso di tentarea l'operazione opposta, ossia l'accettazione da parte della società di quella figura, da sempre inquietante, che è la follia, dal momento che, scrive Basaglia: "La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, per tradurre la 'follia' in 'malattia' allo scopo di eliminarla. Il manicomio ha qui la sua ragion d'essere che è poi quella di far diventare razionale l'irrazionale. Quando qualcuno è folle ed entra in manicomio smette di essere 'folle' per trasformarsi in 'malato'. Diventa razionale in quanto malato". L'ansia di accreditarsi come scienza sul modello della medicina ha fatto sì che la psichiatria trascurasse, senza curarsene, la "soggettività" dei folli, i quali furono tutti "oggettivati" di fronte a quell'unica soggettività salvaguardata che è quella del medico. Ma è davvero credibile che, negando istituzionalmente la soggettività del folle, sia possibile guarirlo, cioè restaurarlo nella sua soggettività? Di qui l'invito agli operatori sanitari di togliersi i camici, simboli del potere medico che non può operare, dice lo sceneggiato, se prima non si smonta il lager. "Ma i pazienti sono muti" obiettano gli infermieri. E allora, risponde Basaglia: "Avresti voglia di parlare quando nessuno ti ascolta?". E ancora: "Le anime di questi pazienti non sono 'vuote', come voi dite, ma semplicemente 'svuotate', in questo carcere di cui voi siete 'buoni' carcerieri, ma sempre carcerieri". E poi perché non restituire ai ricoverati gli abiti e i loro effetti personali. "Se a voi, medici e infermieri, togliessero tutte le cose più care che avete in casa, che cosa resta di voi?" Accettando la condizione di parità tra medico e paziente Basaglia scopre che, restituendo al folle la sua soggettività, questi diventa un uomo con cui si può entrare in relazione. Scopre che il folle ha bisogno non solo delle cure per la malattia, ma anche di un rapporto umano con chi lo cura, di risposte reali per il suo essere, di denaro, di una famiglia e di tutto ciò di cui anche il medico che lo cura ha bisogno. Insomma, dice Basaglia: "Il malato non è solamente un malato, ma un uomo con tutte le sue necessità". L'utopia di Basaglia di fare della clinica un laboratorio per rendere "umane" e non "oggettivanti" le relazioni tra gli uomini, attraverso la creazione di servizi di salute mentale diffusi sul territorio, residenze comunitarie, gruppi di convivenza, con la partecipazione di maestri, educatori, accompagnatori, attori motivati, oggi sembra in procinto di naufragare e fallire. Anche se l'Organizzazione Mondiale della Sanità, che nel 2003 ha definito la legge Basaglia che ha chiuso i manicomi come "uno dei pochi eventi innovativi nel campo della psichiatria su scala mondiale", ci informa che un giovane su cinque in Occidente soffre di disturbi mentali, che nel 2020i disturbi neuropsichiatrici cresceranno in una misura superiore al 50 per cento, divenendo una delle cinque principali cause di malattia, di disabilità e di morte. Che facciamo? Mettiamo tutti in manicomio o facciamo recuperare loro quel rapporto col mondo che il manicomio preclude definitivamente e i servizi di salute mentale, così come sono oggi, non garantiscono, per incuria, trascuratezza, indifferenza, per la paura che la società ha della diversità che ospita nelle figure degli immigrati, dei tossici, dei senzatetto, degli emarginati? Questo Basaglia lo temeva e perciò, un anno prima di morire scrisse: "Magari i manicomi torneranno a essere chiusi e più chiusi di prima, io non lo so, ma a ogni modo noi abbiamo dimostrato che si può assistere la persona folle in un altro modo, e la testimonianza è fondamentale. Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo 'vincere', perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo 'convincere'. Nel momento in cui convinciamo, vinciamo, cioè determiniamo una situazione da cui sarà più difficile tornare indietro". E il contributo dello sceneggiato televisivo, bellissimo nel suo ritmo, nelle sue cadenze e nella sua documentazione, va nella direzione di convincerci a non tornare indietro.

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Umberto Galimberti

Umberto Galimberti, nato a Monza nel 1942, è stato dal 1976 professore incaricato di Antropologia Culturale e dal 1983 professore associato di Filosofia della Storia. Dal 1999 è professore ordinario …