La nostra Shoah. Zoom su Carlo Greppi

27 Gennaio 2015

«Il passato è un bacino inesauribile di vicende da scovare, ricostruire e raccontare» - dice Carlo Greppi, autore dell'ebook La nostra Shoah. Italiani, sterminio, memoria, Zoom Macro. - «Nel caso del periodo di cui mi occupo con maggior costanza, le storie che leggo e ricostruisco sono degli spaccati di umanità irrinunciabili».

Cosa ti ha spinto a occuparti in maniera così intensa dell'intreccio fra coscienza nazionale e Shoah, sia in La nostra Shoah che nei tuoi precedenti lavori?

Lo stupore, penso. Mi capita spesso di registrare la mia incredulità trovandomi di fronte a chi rivendica un presunto carattere “buono” o “cattivo” dei propri connazionali o di altre nazionalità al tempo dello sterminio degli ebrei d'Europa. È un manicheismo che è privo, ovviamente, di fondamento scientifico. La responsabilità è sempre individuale, e la storia della Shoah, come la storia in generale, dev'essere lo studio dell'uomo nel tempo, delle continuità e delle contraddizioni della vicenda umana. È naturale che ci si senta particolarmente coinvolti quando si parla del proprio paese, ma questo non deve annebbiare la nostra percezione e la capacità di guardare al tempo che vissero i nostri antenati con pacatezza. È poco importante che io sia italiano: quando mi ritrovo a studiare storie di chi, da noi come ovunque, rimase semplicemente a guardare le persecuzioni e lo sterminio, sento che quella “spettatorialità” mi riguarda perché non so cosa avrei fatto io; quando leggo degli “uomini comuni” di Amburgo che obbedirono a ordini criminali per non essere considerati codardi dai loro commilitoni mi sento ugualmente coinvolto, in quanto essere umano. E quando racconto la storia di chi invece si oppose e rischiò la vita per salvare quella di altri esseri umani braccati in qualunque lembo di terra nella morsa del nazifascismo, mi chiedo chi di noi avrebbe il coraggio, oggi, di comportarsi così.

Cosa significa essere oggi uno storico in Italia, paese al contempo arroccato sul suo passato e spesso incapace di guardarlo con onestà intellettuale?

A un uso politico-ideologico del nostro passato, che ancora esiste, sta subentrando un uso identitario, che è pericolosissimo. Lo scriveva trent'anni fa Primo Levi: «La storia popolare, ed anche la storia quale viene tradizionalmente insegnata nelle scuole, risente di questa tendenza manichea che rifugge dalle mezze tinte e dalle complessità: è incline a ridurre il fiume degli accadimenti umani ai conflitti, e i conflitti a duelli, noi e loro, gli ateniesi e gli spartani, i romani e i cartaginesi» (Primo Levi, I sommersi e i salvati, Einaudi, 2007).
Credo che essere uno storico oggi, in Italia, significhi non solo fare ricerca, studiare e scrivere, ma non ignorare che la propria disciplina è oggetto di frizioni, contese e polemiche. Significa anche cercare di partecipare al dibattito pubblico proponendo una lettura del nostro passato che serva al presente, non per legittimarsi o per combattere un presunto altro, ma per educarci all'osservazione della complessità. La storia non deve essere un'arma o uno scudo, ma uno strumento, un percorso di conoscenza da intraprendere con serietà e rispetto – stiamo pur sempre parlando di altre vite umane – e con la disponibilità a imparare, a rinnovarsi e anche, naturalmente, a modificare le proprie convinzioni.

Sei tra gli organizzatori di Promemoria_Auschwitz, uno dei tanti treni che ogni anno accompagnano ad Auschwitz scolaresche di tutta Italia. Che bilancio fai di questa esperienza?

È un'esperienza straordinaria, e mai uguale a se stessa. Mi occupo da sei anni di viaggi della memoria, ormai, ed è difficile descrivere il rapporto che si crea con i ragazzi che partecipano ai nostri percorsi formativi e che si devono confrontare con delle emozioni forti, elaborarle intrecciandole con la conoscenza, la discussione e il confronto, e poi ripartire. Io sono solo uno dei tanti tasselli di un ingranaggio: condivido questa strada con i compagni e le compagne di viaggio dell'associazione Deina. Come noi, tante altre si occupano di organizzare viaggi della memoria, in particolare a partire dall'istituzione del Giorno della Memoria, quindici anni fa. È fondamentale essere sempre aperti al dibattito, non facendo l'errore di credere di aver trovato la formula educativa e formativa che funziona, ma continuando a proporre nuovi percorsi immersivi complementari alla didattica intensa in senso tradizionale. Senza pensare mai che la nostra esperienza valga più delle altre, e mettendo sempre in primo piano i ragazzi, che avranno in mano il futuro. Se comprendono l'universalità della storia della Shoah, avranno gli antidoti per sconfiggere il manicheismo, l'uso politico o identitario del nostro passato e per essere consapevoli del fatto che tutto questo ci riguarda, e che abbiamo una serie di strumenti concreti, di analisi e riflessione, per evitare che il mondo scivoli nuovamente nel baratro, un giorno.

In un'epoca così frenetica e orientata al culto delle news, cosa può far nascere in un giovane la passione per la storia?

Per quanto riguarda me personalmente, la passione è cresciuta grazie al mio bisogno di storie, e il passato è un bacino inesauribile, con un'infinità di vicende da scovare, ricostruire e raccontare. Nel caso del periodo di cui mi occupo con maggior costanza, le storie che leggo e ricostruisco sono degli spaccati di umanità irrinunciabili.
L'altra ragione che spinge alla storia me come tanti altri è la necessità della prospettiva. È vero che più andiamo indietro più si diradano le tracce che la storia ha lasciato di sé, ma è altrettanto vero che, studiando l'uomo nel tempo a distanza di decenni, si possono intrecciare fonti di diversa natura e confrontare interpretazioni nel tentativo di capire in che modo si sono comportati coloro che ci hanno preceduti, e che conseguenze hanno avuto le loro azioni o la loro immobilità. Ritengo che la conoscenza del passato sia uno strumento fondamentale per sapere interpretare il nostro presente, la nostra vita di tutti i giorni. L'attualità, che è incredibilmente mutevole e difficile da fotografare, ci mostra spesso quanto sia necessaria una giusta distanza dagli eventi per poterli comprendere.

C'è un legame diretto fra comprensione del passato, personale e nazionale, e progettazione del futuro?

Assolutamente sì. La storia non si ripete, ma fa le rime. Recentemente, un amico somalo di religione musulmana, mi ha raccontato che il giorno della strage a Charlie Hebdo un funzionario pubblico che conosceva gli ha detto: «Ma cosa avete fatto?». E io ho sentito una rima.
Mi ha ricordato il racconto di una donna considerata “di razza ebraica”, che dell'arresto suo e della sua famiglia spazzata via dalla Shoah – quasi venti secoli d.C. – ha scritto di un poliziotto italiano che arrivò e disse loro: «Hanno inchiodato Nostro Signore Gesù Cristo, gli ebrei». E poi aggiunse, sorridendo: «In che guaio vi siete messi da allora. In che guaio. E chi può darvi retta dopo quello che avete fatto?» (Piera Sonnino, Questo è stato. Una famiglia italiana nei lager - a cura di Giacomo Papi- , Il Saggiatore, 2004).
Laddove si inizia a usare la parola radici comincia il pericolo. Si dice identità e cultura, ma io sento sangue e suolo. «La parola 'cultura' è diventata un marchio, l'aggettivo 'diversa' l'ha gettata nel gorgo del sospetto, della diffidenza, del disprezzo, fino all'odio. Si continua a dire 'cultura' ma si pensa 'razza'», scrive l'antropologo Marco Aime (Marco Aime, La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione, Elèurhera, 2013).
In un'epoca che dovrebbe essere all'insegna dell'universalità, in un mondo che credevamo lontano dalla logica delle identità che insanguinò il nostro continente settant'anni fa, bisogna saper guardare all'indietro – anche questo, in fondo, è uso del passato – per trovare antidoti. Perché, e lo dice un altro antropologo, Francesco Remotti, sappiamo benissimo dove finisce la strada del noi-loro: «I 'noi' ossessionati dall'identità sono assai più fragili, e proprio per questo assai più terribili. L'identità infatti non è soltanto una strategia di difesa: fomenta anche strategie di offesa […] ci vuole poco perché questa situazione di stallo e di rispetto momentaneo delle distanze si tramuti in una situazione di rischio (paventato o reale), in seguito alla quale il 'noi' finisce con l'imbracciare il fucile o impugnare il machete per 'fare fuori' il suo nemico» (Francesco Remotti, L'ossessione identitaria, Laterza, 2010).

Nella foto, Carlo Greppi. 

Per approfondire questi delicati temi l'autore sarà ospite della trasmissione Il tempo e la storia il 27 gennaio 2015 alle 13.10 su Rai3 e alle 20.50 su Rai Storia.

La nostra Shoah di Carlo Greppi

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Carlo Greppi

Carlo Greppi (1982), storico e scrittore, ha collaborato con Rai Storia, organizza viaggi della memoria con l’associazione Deina ed è membro del Comitato scientifico dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, che coordina …