Conseguenze di una lunga lettera di rifiuto

22 Febbraio 2014

Andai a fare un giro per pensarci un po’ su. Era la più lunga tra quelle che avevo ricevuto. Solitamente scrivevano solo: “Spiacenti, non rientra nella nostra linea editoriale”, oppure: “Spiacenti, non è quello che stavamo cercando”. O, più spesso, la classica lettera di rifiuto prestampata.
Ma questa di certo era la più lunga, la più lunga di tutte. Riguardava il mio racconto Scorribande in una cinquantina di stanze in affitto. Andai sotto un lampione, presi la lettera di rifiuto dalla tasca, e la rilessi:

Gentile signor Bukowski,
come sempre, quello che lei ci ha inviato è un misto di materiale ottimo e di altro materiale così pieno di prostitute idolatrate, di scene di vomito del giorno dopo, misantropia, elogio del suicidio ecc. che non è assolutamente adatto per la pubblicazione. Si tratta, piuttosto, della classica saga di un certo tipo di persona e in questo senso penso che lei abbia fatto un lavoro onesto. Può darsi che nel futuro le pubblicheremo qualcosa, ma non so dirle quando. Dipende da lei.
In fede,
Whit Burnett


Oh, conoscevo bene la firma: l’“h” allungata con lo sghiribizzo finale sulla “W”, e l’inizio della “B” che occupava quasi metà pagina.
Rimisi la lettera in tasca e continuai a camminare. Mi sentivo abbastanza bene.
D’altronde scrivevo da due anni appena. Due brevi anni. AHemingway ce n’erano voluti dieci. E Sherwood Anderson aveva già quarant’anni prima che gli pubblicassero qualcosa.
Pensai che però avrei dovuto smetterla con la bottiglia e con le donne di dubbia reputazione.
Il whiskey era comunque difficile da trovare e il vino mi stava rovinando lo stomaco. Millie però... con Millie sarebbe stata più dura, durissima.
...Ma Millie, Millie, ricordiamoci dell’arte. Dostoevskij, Gor’kij, per la Russia, e adesso l’America vuole un europeo dell’Est. L’America è stufa dei Brown e degli Smith. I Brown e gli Smith sono bravi scrittori, ma ce ne sono troppi, e poi scrivono tutti allo stesso modo. L’America vuole l’oscurità incerta, le meditazioni scomode e i desideri repressi di un europeo dell’Est.
Millie, Millie, il tuo corpo è perfetto: finisce stretto sui fianchi e amarti è facile quanto infilarsi un paio di guanti con zero gradi di temperatura. La tua stanza è sempre calda e allegra e hai dei dischi e dei panini al formaggio che adoro. E, Millie, ricordi la tua gatta? Ricordi quando era piccola? Ho cercato di insegnarle a dare la zampa e a rotolarsi, e tu mi hai detto che un gatto non è un cane e che non ci sarei riuscito. Bene, io ce l’ho fatta, vero Millie? Adesso la gatta è grande, è anche diventata mamma e ha avuto i cuccioli. Ma adesso deve andarsene, Millie: gatti, corpi e la sesta sinfonia di Çajkovskij. L’americano medio ha bisogno di un europeo dell’Est...
A quel punto mi accorsi di essere davanti alla mia stanza in affitto, e mi accinsi a entrare. Poi vidi la luce accesa alla finestra. Guardai dentro: Carson e Shipkey erano seduti al tavolo con uno che non conoscevo. Stavano giocando a carte e al centro c’era un bottiglione di vino. Carson e Shipkey erano pittori che non riuscivano a decidersi se dipingere come Salvador Dalí o Rockwell Kent, e che mentre cercavano di chiarirsi le idee lavoravano al cantiere navale.
Poi vidi un uomo seduto in silenzio sul bordo del mio letto. Aveva i baffi e il pizzetto e qualcosa di familiare. Mi sembrava di ricordare quella faccia. Forse l’avevo vista in un libro, in un giornale o in un film. Chissà.
Poi mi venne in mente.
Quando mi venne in mente fui indeciso se entrare o no. Dopo tutto, cosa mai si poteva dire? Come ci si doveva comportare? Con uno così era difficile. Bisognava stare attenti a non dire la cosa sbagliata, bisognava stare attenti a tutto.
Tanto per cominciare decisi di fare un giro dell’isolato. Avevo letto da qualche parte che aiuta, quando sei teso. Mentre me ne andavo, sentii Shipkey imprecare e qualcuno rompere un bicchiere. Questo di sicuro non mi aiutò.
Decisi di provare il discorso in anticipo. “Vede, non sono granché come oratore. Sono molto introverso e divento teso. Mi tengo tutto dentro e poi lo trasformo in parole sulla carta. Sono certo di averla delusa, ma sono così da sempre.”
Pensai che fosse più che sufficiente e quando finii il giro dell’isolato entrai deciso in camera.
Notai che Carson e Shipkey erano piuttosto ubriachi, e sapevo che non mi sarebbero stati d’aiuto. Anche l’ometto che giocava a carte che avevano portato al seguito era ubriaco fradicio, solo che aveva davanti a sé tutti i soldi del tavolo.
L’uomo col pizzetto si alzò dal letto. “Come sta?” mi chiese.
“Bene, e lei?” Ci stringemmo la mano. “Spero di non averla fatta aspettare troppo,” dissi.
“Oh, no.”
“Vede,” dissi io, “non sono granché come oratore...”
“Eccetto quando è ubriaco, allora urla come un matto. A volte va fino in piazza e tiene dei discorsi e se nessuno l’ascolta parla agli uccelli,” disse Shipkey.
L’uomo col pizzetto sogghignò. Aveva uno splendido ghigno. Era chiaro che era un tipo intelligente.
Gli altri due continuarono a giocare a carte, ma Shipkey girò la sedia per guardarci.
“Sono molto introverso e divento teso,” continuai, “e...”
“Teso-teso o teso come un tendone da circo?” urlò Shipkey.
Davvero un’uscita infelice, ma il tizio con il pizzetto sorrise di nuovo e io mi sentii meglio.
“Mi tengo tutto dentro e poi lo trasformo in parole sulla carta e...”
“Quasi tutto o c’è il trucco?” urlò Shipkey.
“...e sono certo di averla delusa, ma sono così da sempre.”
“Senti, bello!” urlò Shipkey dondolandosi avanti e indietro sulla sedia.
“Dico a te, col pizzetto!”
“Sì?”
“Senti, sono un metro e ottanta, ho i capelli mossi, un occhio di vetro e un paio di dadi rossi.”
L’uomo rise.
“Non mi credi, eh? Non credi che ho un paio di dadi rossi?”
Non so perché, ma quando Shipkey era ubriaco voleva sempre far credere di avere un occhio di vetro. Ne indicava uno a caso e insisteva che era di vetro. Diceva che l’occhio di vetro era stato fatto appositamente dal padre, il più grande specialista al mondo, che, sfortunatamente, era stato ucciso da una tigre in Cina.
Di colpo Carson si mise a urlare: “Ti ho visto prendere quella carta! Da dove è saltata fuori? Mettila qui, qui! È segnata, segnata! Lo sapevo! Ecco perché vincevi! Ecco! Ecco!”.
Carson si alzò dalla sedia, afferrò il giocatore basso per la cravatta e lo sollevò di peso. Carson era paonazzo dalla rabbia e il giocatore basso iniziò a diventare rosso mentre Carson lo teneva sollevato per la cravatta.
“Cosa c’è, eh? Eh? Cosa c’è sotto? Cosa sta succedendo?” urlò Shipkey.
“Vediamo un po’, eh? Dammela, stupido!”
Carson era viola e riusciva a malapena a parlare. Le parole gli sibilarono tra le labbra con grande sforzo e non mollò la presa alla cravatta. Il giocatore basso cominciò ad agitare le braccia come un polipo gigante portato in superficie.
“Ci ha imbrogliati!” sibilò Carson. “Imbrogliati! L’ha tirata fuori dalla manica, com’è vero Iddio! Ci ha imbrogliati, te lo dico io!”
Shipkey andò dietro al giocatore basso, lo afferrò per i capelli e iniziò a sbattergli la testa avanti e indietro. Carson non mollava la cravatta.
“Ci hai imbrogliati, eh? Sì o no? Parla! Parla!” gridò Shipkey tirandogli i capelli.
Il giocatore basso non parlò. Agitava le braccia e sudava.
“La porto fuori per una birra e a mangiare qualcosa,” dissi al tizio col pizzetto.
“Forza, dai, parla! Sputa il rospo! Non riuscirai a imbrogliarci!”
“Oh, ma non ce n’è bisogno,” disse il tizio col pizzetto.
“Verme! Pidocchio! Porco babbione!”
“Insisto,” dissi.
“Volevi fregare un uomo con un occhio di vetro, vero? Te la faccio vedere io, porco babbione!”
“È molto gentile da parte sua, e ho un po’ fame, grazie,” disse l’uomo col pizzetto.
“Parla! Parla, porco babbione! Se non parli tra due minuti, tra due minuti esatti ti strappo il cuore e lo uso come pomolo della porta!”
“Vogliamo andare subito?” dissi.
“D’accordo,” disse l’uomo col pizzetto.

A quell’ora di notte tutti i posti dove andare a mangiare erano chiusi e ce ne voleva per arrivare in città. Non potevo riportarlo nella mia stanza, dovevo rischiare e portarlo da Millie. Aveva sempre un mucchio di roba da mangiare. In ogni caso, aveva sempre il formaggio.
Avevo ragione. Ci preparò dei tramezzini al formaggio e del caffè. La gatta mi conosceva e mi saltò in grembo.
La rimisi a terra.
“Guardi, signor Burnett,” dissi.
“Dai la zampa!” dissi alla gatta. “Dai la zampa!”
La gatta rimase immobile.
“È strano! Prima lo faceva sempre,” dissi. “Dai la zampa!”
Mi ricordai che Shipkey aveva detto al signor Burnett che parlavo agli uccelli.
“Dai, su, forza! Dai la zampa!”
Cominciavo a sentirmi stupido.
“Dai, su, dai la zampa!”
Abbassai la testa vicino a quella della gatta e ce la misi tutta.
“Dai la zampa!”
La gatta rimase immobile.
Tornai a sedermi e presi un tramezzino al formaggio.
“I gatti sono animali strani, signor Burnett. Sono imprevedibili. Millie, metti la sesta di âajkovskij per il signor Burnett.”
Ascoltammo la musica. Millie venne da me e mi si sedette in braccio. Aveva addosso solo un négligé. Mi si sdraiò sopra. Spostai il panino di fianco.
“Vorrei farle notare,” dissi al signor Burnett, “il passaggio che porta avanti il movimento di marcia in questa sinfonia. Penso che sia uno dei movimenti più belli mai composti. E oltre alla bellezza e alla forza, ha anche una struttura perfetta. Si percepisce l’intelligenza che c’è sotto.”
La gatta saltò in grembo all’uomo col pizzetto. Millie appoggiò la guancia sulla mia, mi mise una mano sul petto. “Dove ti eri cacciato, bambolo? Sei mancato alla tua Millie, lo sai.”
Il disco finì e l’uomo col pizzetto spostò la gatta dal grembo, si alzò e girò il disco. Avrebbe dovuto cercare il secondo disco dell’album. Girandolo semplicemente saremmo arrivati alla finemolto presto. Non dissi nulla, però, e l’ascoltammo fino alla fine.
“Le è piaciuto?”
“Bello! Proprio bello!”
Aveva messo giù la gatta.
“Dai la zampa! Dai la zampa!” disse alla gatta.
La gatta gli diede la zampa.
“Guardi,” disse, “sono riuscito a farmi dare la zampa dalgatto!”
“Dai la zampa!”
La gatta si rotolò.
“No, dai la zampa! Dai la zampa!”
La gatta rimase immobile.
Abbassò la testa avvicinandola a quella della gatta e le parlò all’orecchio. “Dai la zampa!”
La gatta gli affondò gli artigli nel pizzetto.
“Visto? Sono riuscito a farmi dare la zampa!” Il signor Burnett sembrava compiaciuto. Millie si schiacciò contro di me. “Baciami, bambolo,” disse, “baciami.”
“No.”
“Dio mio, ma sei fuori di melone, bello? Cosa c’hai dentro che ti rode? C’hai qualcosa che ti dà fastidio stasera, lo vedo! Dillo alla tua Millie! Millie si butterebbe nel fuoco per te, bambolo, lo sai bene. Cosa c’hai, eh? Eh?”
“Adesso faccio rotolare il gatto,” disse il signor Burnett.
Millie mi strinse forte tra le braccia e mi guardò negli occhi dall’alto in basso. Sembrava molto triste e materna e sapeva di formaggio. “Di’ a Millie cosa c’hai che ti rode, bambolo.”
“Rotola!” disse il signor Burnett alla gatta.
La gatta rimase immobile.
“Senti,” dissi a Millie, “lo vedi quel tizio?”
“Sì, lo vedo.”
“Be’, quello è Whit Burnett.”
“E chi è?”
“È il direttore della rivista. Quella a cui spedisco i miei racconti.”
“Intendi quello che ti scrive tutte quelle letterine?”
“Lettere di rifiuto, Millie.”
“Be’, è cattivo. Non mi piace.”
“Rotola!” disse il signor Burnett alla gatta. La gatta rotolò. “Guardate!” urlò, “sono riuscito a farlo rotolare! Mi piacerebbe comprare questo gatto! È fenomenale!”
Millie aumentò la stretta e mi guardò di nuovo negli occhi dall’alto in basso. Mi sentivo inerme. Mi sentivo come un pesce ancora vivo sul ghiaccio di un bancone del mercato il venerdì mattina.
“Senti,” disse lei, “posso fargli pubblicare uno dei tuoi racconti. Anzi, posso farglieli pubblicare tuttissimi!”
“Guardate che faccio rotolare il gatto!” disse il signor Burnett.
“No, no, Millie, non capisci. Gli editori non sono mica spenti uomini d’affari. Gli editori hanno scrupoli!”
“Scrupoli?”
“Scrupoli.”
“Rotola!” disse il signor Burnett.
La gatta rimase immobile.
“Io so tutto dei tuoi scrupoli! Lascia perdere gli scrupoli! Bambolo, riuscirò a fargli pubblicare tutti i tuoi racconti!”
“Rotola!” disse il signor Burnett alla gatta. Ancora niente.
“No, Millie, questo non lo accetto.”
Mi abbracciava stretto. Non riuscivo quasi a respirare ed era piuttosto pesante. Mi si stavano addormentando i piedi. Millie premette la guancia contro la mia e mi sfregò la mano su e giù per il torace. “Bambino, lascia fare a me!”
Il signor Burnett abbassò la testa vicino a quella della gatta e le parlò all’orecchio.
“Rotola!”
La gatta gli affondò gli artigli nel pizzetto.
“Penso che questo gatto abbia fame,” disse.
Poi tornò a sedersi. Millie si avvicinò e gli si sedette sulle ginocchia.
“Dove hai preso questo pizzetto così carino?” chiese lei.
“Scusatemi,” dissi, “vado a prendermi un bicchiere d’acqua.”
Entrai nel tinello e mi sedetti al tavolino e rimasi a fissare i fiori stampati sul tavolo. Cercai di grattarli via con l’unghia.
Era già abbastanza dura dividere l’amore di Millie con il formaggiaio e il saldatore. Millie con quel suo corpo che finiva su quei fianchi da sballo. Dannazione, dannazione.
Stetti lì per un po’, poi tirai fuori dalla tasca la lettera di rifiuto e la rilessi. Le linee lungo le quali era stata piegata iniziavano a essere marroncine per lo sporco e per l’usura. Dovevo smettere di leggerla e infilarla tra le pagine di un libro come una rosa appassita.
Tornai a pensare a cosa c’era scritto. Quello era sempre stato il mio problema. Già dai tempi del college ero attirato dall’oscurità incerta. L’insegnante di scrittura creativa del racconto una sera mi portò a cena e a uno spettacolo e mi parlò delle meraviglie della vita. Le avevo consegnato un racconto in cui ero il personaggio principale e camminavo su una spiaggia, di sera, e cominciavo a riflettere sul significato di Cristo, sul significato della morte, sul significato della compiutezza e del ritmo insiti in tutte le cose. Poi, nel bel mezzo delle mie meditazioni, incontro un barbone dagli occhi confusi che mi getta sabbia in faccia. Gli parlo, gli compro una bottiglia e beviamo. Stiamo male. Poi finiamo in un bordello.
Dopo cena, l’insegnante aprì la borsa e prese il mio racconto della spiaggia. Lo aprì circa a metà, fino all’arrivo del barbone dagli occhi confusi, alla fine della riflessione sul significato di Cristo.
“Fino a qui,” disse lei, “fino a qui, era molto buono, anzi, era bellissimo.”
Poi mi guardò fisso, con lo sguardo che possono avere solo le persone intelligenti dotate di senso artistico che sono riuscite a far soldi e a raggiungere una posizione. “Ma, scusami, scusami tanto,” tamburellò con le dita sull’altra metà del mio racconto, “ma che diavolo c’entra tutta ’sta roba che viene dopo?”

Non resistevo più, dovevo tornare di là. Mi alzai e andai nel soggiorno.
Millie era avvinghiata a lui e lo guardava dall’alto in basso. Il signor Burnett sembrava un pesce sul ghiaccio.
Probabilmente, Millie pensò che volessi parlargli della prassi per la pubblicazione.
“Scusatemi, devo pettinarmi,” disse, e lasciò la stanza.
“Una ragazza niente male, vero signor Burnett?” chiesi.
Si ricompose e si aggiustò la cravatta. “Mi scusi,” disse lui, “perché continua a chiamarmi ‘signor Burnett’?”
“Ma come, non lo è?”
“Sono Hoffman. Joseph Hoffman. Sono della compagnia di assicurazioni sulla vita Curtis. Sono venuto per quella cartolina che ci ha spedito.”
“Ma io non ho mandato nessuna cartolina.”
“L’abbiamo ricevuta.”
“Io non ne ho spedite.”
“Ma lei non è Andrew Spickwich?”
“Chi?”
“Spickwich. Andrew Spickwich, 3631 Taylor Street.”
Millie ritornò e si avvinghiò a Joseph Hoffman. Non ebbi il coraggio di dirglielo.
Chiusi la porta silenziosamente, scesi i gradini e mi ritrovai in strada. Arrivai quasi a metà dell’isolato e poi vidi le luci che si spegnevano.
Corsi come un matto verso la mia stanza sperando che nel bottiglione sul tavolo fosse rimasto un po’ di vino. Non credevo, comunque, di essere così fortunato, perché la mia è troppo la classica saga di un certo tipo di persona: oscurità incerta, meditazioni scomode e desideri repressi.

Tratto da "Azzeccare i cavalli vincenti"

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