Marco D'Eramo: Che forti, questi americani

28 Luglio 2004
Le tribune da stadio coperto dell'immenso antro in penombra del Convention Center sono sovrastate da abbaglianti insegne al neon con lo slogan della convenzione, un po' inquietante: A Stronger America, "per un'America più forte", come se i democratici ritenessero che gli Stati uniti non sono forti abbastanza. Ti chiedi se la piattaforma democratica non è per caso una ricetta che prescrive ormoni della crescita a un gorilla da una tonnellata. Lo slogan è tanto più inquietante in quanto all'immenso anfiteatro ci arrivi dopo aver attraversato una città militarizzata, pattugliata da soldati della guardia nazionale del Massachusetts in tenuta mimetica, poliziotti a cavallo, reparti antisommossa in tenuta corazzata, posti di blocco, stazioni della metropolitana chiuse al traffico, elicotteri roteanti in cielo, il tutto per poche centinaia di contestatori che - contro la loro volontà e contro il tuo augurio - appaiono inermi, irrilevanti, usati solo come pretesto per una pleonastica dimostrazione di schiacciante forza repressiva. E dopo devi ancora passare un metal detector e un'ispezione che non ha nulla da invidiare a un aeroporto.
In realtà lo slogan A Stronger America è stato pensato come una furbata, come un modo per attaccare i repubblicani ma sul loro terreno, per criticarli senza apparire pacifisti, per occupare il mitico "centro" dello schieramento politico. La strategia appariva chiara nella notte di lunedì quando con i grandi tenori - l'ex presidente Jimmy Carter (1976-80), Bill Clinton (1992-2000), il suo vicepresidente Al Gore e Hillary Clinton - scorrevano sul podio gli ultimi trent'anni di storia democratica.
Tutti hanno attuato la strategia che aveva indicato domenica il candidato John Kerry (che si trova ora in ‟tournée” elettorale negli stati del sud e arriverà alla Convention solo stasera) e cioè di contenere al massimo gli attacchi negativi contro la persona di George W. Bush "per non apparire faziosi ed estremisti". Così, Clinton ha sempre usato l'espressione "Presidente e Congresso repubblicano", mai nominando Bush. Nella stessa opzione strategica, la guerra in Iraq è stata la grande assente, un buco nero, dispersa in azione nella retorica grondante di patriottismo.
Con un artifizio proprio della retorica politica statunitense, tutti hanno giocato la carta dell'ironia, a partire da un ingrassato Al Gore che ha iniziato: "Sarò candido: non vi nascondo che avrei desiderato presentarmi a questa Convention in circostanze diverse, e cioè facendo campagna per essere rieletto". Gore si riferiva alle presidenziali del 2000 quando ottenne più voti di Bush, ma la presidenza gli fu sottratta da un colpo di mano della Corte Suprema. "Ma non sono venuto qui per parlare del passato. Dopo tutto non voglio che pensiate che sto sveglio la notte a contare e ricontare pecore" (si riferiva al tormentone del conteggio dei voti in Florida). Ancora ironia quando Gore ha così descritto la politica economica di Bush: "Vi aspettavate forse i più grandi deficit statali della storia? Uno appresso all'altro? E la perdita di più di un milione di posti di lavoro? Tra parentesi, io ne so qualcosa della cattiva economia. Sono stato il primo a essere licenziato. E mentre è vero che nuovi posti di lavoro sono stati creati, i nuovi però non erano buoni come quelli che la gente aveva perso. Incidentalmente, questo è stato vero anche per me. Ma per milioni di americani, non è stata una battuta divertente".

Tra il predicatore e la rockstar.
Ironico assai, come al suo solito, anche Bill Clinton. Parlando della politica pro-ricchi di quest'amministrazione repubblicana, ha detto con amaro sarcasmo: "Ci sono stati due enormi tagli fiscali, di cui circa la metà è andata a favore dell'1% più ricco della popolazione. Per la prima volta nella mia vita io faccio ora parte di questo gruppo. Quando ero in carica, i repubblicani furono assai meschini nei miei confronti (si riferiva alla tentata procedura d'empeachement per la vicenda Monica Levinski, ndr). Ma quando scadde il mio mandato e feci i soldi (pensione da ex presidente, gettoni per le sue conferenze e royalties del suo libro, ndr), io entrai a far parte del gruppo che per loro è il più importante del mondo. Di primo acchito, pensai che avrei dovuto mandargli un bigliettino di ringraziamento, finché ho capito che stavano mandando il conto a tutti voi. Loro proteggevano le mie riduzioni fiscali mentre... " e giù a elencare le devastazioni sociali prodotte dai tagli.
Lo stesso meccanismo - sfruttare le proprie debolezze per acquisire forza - Clinton lo ha usato a proposito della guerra in Vietnam: "allora, molti giovani - inclusi l'attuale presidente, vicepresidente e me stesso - avrebbero potuto andare a combattere, ma non lo fecero. Invece John Jerry veniva da una famiglia privilegiata e avrebbe potuto evitarlo anche lui, ma disse `Mandatemi'". E poi ha usato il ritornello "Mandatemi" per concludere "Mandiamolo".
Come sempre, Clinton ha pitonato i 5.000 delegati, i 15.000 membri dei mass media presenti, e - di certo - i milioni di telespettatori che hanno assistito alla sua performance "a metà tra i grandi predicatori e le rock star" (così ha titolato il ‟New York Times”). In realtà, notevole nella comunicativa clintoniana, così moderna, sofisticata, sapientemente alla mano, è la sua retorica vecchio stile, da penalista di provincia, le sue antitesi ripetute come ritornelli di ballate popolari, la sua aggettivazione: Kerry è "buono", "forte", "saggio", "sagace", lui e il suo vice Edwards sono "brave persone", "con i valori giusti". Clinton rasentava, se non sfondava, l'istrionismo quando ha detto che da oggi fino a novembre sarà "il soldato di fanteria" di Kerry (è difficile vedere il trionfale ex presidente come l'attendente del rigido candidato).
Ma anche questa concessione alla retorica politica più lisa era l'esito di un'accurata pesa politica al bilancino. Il terreno scelto per attaccare Bush era il più neutro (ma forse anche il più efficace) possibile: "Il solo test che conta in politica è se la gente stava meglio prima che questa politica fosse varata o se sta meglio dopo che è stata realizzata ", cioè se i democratici hanno amministrato meglio dei repubblicani, se hanno reso l'America più ricca, più forte, più rispettata nel mondo: ed è stata partita facilissima mostrare che Bush lascia gli Usa in peggiore situazione di come li ha trovati. Jimmy Carter ha ricordato che la sua politica estera aveva prodotto gli accordi di Camp David mentre l'attuale ha prodotto un disastro in Medio Oriente. Clinton ha fatto cappotto: "La nostra politica ha prodotto più di 22 milioni di posti di lavoro stabili e con i contributi, ha innalzato i livelli di reddito, ha fatto uscire dalla povertà ed entrare nella classe media cento volte più persone, ha prodotto più assistenza medica, il più importante aumento nelle sovvenzioni universitarie in 50 anni, un ambiente meno inquinato, un tasso da record di proprietari della casa d'abitazione, tre surplus di bilancio di seguito, forze armate modernizzate, decisi sforzi contro il terrore, e un'America rispettata come leader mondiale per la pace, la sicurezza e la prosperità".

Strategia clintoniana.
Addirittura, a proposito di repressione, Clinton rivendicava: "La nostra politica contro la criminalità era di dispiegare per strada più poliziotti e di togliere dai marciapiedi le armi da assalto. La loro politica è il contrario: tolgono la polizia dalle strade e riportano i mitra per strada".
La strategia clintoniana è chiara: l'impero mondiale Usa rischia di essere messo in crisi, sia all'interno che all'estero dalla ricetta Bush, nei due casi troppo aggressiva, unilateralista, da bulli, in una parola divisiva: "i Democratici propugnano responsabilità condivise, condivise opportunità e maggiore cooperazione globale. I repubblicani propugnano una concentrazione della ricchezza e del potere che lascia la gente sola a badare a se stessa e un'azione più unilaterale. Noi abbiamo ragione per due motivi: il primo è che l'America lavora meglio quanto tutti hanno una chance di vivere i loro sogni; il secondo è che viviamo in un mondo interdipendente in cui non possiamo uccidere, imprigionare od occupare tutti i nostri potenziali avversari, perciò dobbiamo nello stesso tempo combattere il terrore e costruire un mondo con più partner e meno terroristi".
Tanta è l'ansia di dimostrare quanto l'America sarà più forte con Kerry, che una radiosa Hillary Clinton in giallo canarino (molto cresciuta quanto a tecnica oratoria) ha affermato che i democratici aumenteranno la paga ai soldati e accresceranno la protezione sociale e medica dei veterani. È già abbastanza nauseante la mielosità di questa soap opera che si snocciola sul filo di "Dio benedica l'America", ma fa venire il mal di mare la coppia che inesorabile si abbraccia sul palco in un quadretto di felicità coniugale: lunedì notte Jimmy e Rosalynn, Al e Tip, Bill e Hillary; di sicuro la notte scorsa e domani notte John (Kerry) e Teresa, John (Edwards) ed Elizabeth.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …