Marco D'Eramo: Il day-after della sinistra

25 Novembre 2004
"C'è qualcosa d'istrionico nell'ostentare una tale disperazione per la sconfitta elettorale. Oh dio quanto ci siamo mobilitati, abbiamo profuso tutte le nostre energie, la nostra passione, e tutto è stato inutile. Un po' di senso delle proporzioni! Hanno fatto volantinaggio per due giorni e si sentono dei veterani della campagna di Russia", mi dice Frances Fox-Piven nel suo appartamento vicino a Columbia University mentre la sua gatta ronfa sul divano. Frances Piven è una delle grandi signore della sinistra americana, coautrice, insieme a Richard Cloward di libri fondamentali come Regulating the Poor (1971) e Why Americans don't vote (1988). A settembre è uscito il suo The War at Home: the domestic Costs of Bush's Militarism. "No, io mi sono proprio depresso" dice invece al telefono Michael Walzer, filosofo della politica, teorico della guerra giusta, direttore di ‟Dissent” : "All'inizio ero molto pessimista, poi tutto l'entusiasmo dei giovani attorno a me mi ha contagiato e poi quella notte, con quegli exit poll per cui sembrava che ce l'avessimo fatta...". Le opinioni divergono già sul ruolo dei cristiani conservatori nella vittoria di Bush. Walzer s'interroga su come è successo che una nazione laica si sia imbigottita a tal punto: "In America è avvenuto qualcosa che non abbiamo capito: era un paese così laico! Ho scoperto da poco che fino agli anni `50 la posta veniva distribuita anche di domenica perché, nella sua separazione dalla chiesa, lo stato non doveva rispettare le festività di una religione. E noi non abbiamo capito". Frances Piven s'interroga invece sulla paranoia sessuale, perché tutti i temi dei cosiddetti "valori morali" ruotano in realtà intorno al sesso: "Per trent'anni i repubblicani hanno fatto leva sul razzismo: quando parlavano dei valori della civiltà suburbana, parlavano in realtà di quartieri bianchi segregati. E adesso il sesso è l'equivalente del razzismo anche perché l'immagine dei neri è fortemente sessualizzata negli Stati uniti, sia quella del maschio nero, sia quella della donna nera vista inevitabilmente come adolescente-madre". È vero: sotto il fiume dei valori cristiani scorre sotterraneo un forte contenuto razzista.
Sdrammatizza invece, nel suo ufficio vicino a Union Square, la direttrice di ‟The Nation”, Katrina van den Heuvel. Gonna corta di pelle, calze scure, non valuta più che tanto l'ascesa dei conservatori cristiani: "Non c'è niente di male nell'afflato religioso: negli anni '60 è in nome dei valori morali che è cresciuto il movimento per i diritti civili e contro la guerra. Anzi, c'è tutto da guadagnare se riconquistiamo la dimensione morale delle nostre rivendicazioni". "Sembra che la giustizia non sia un valore" aveva osservato Walzer.
La verità è che quella nebulosa informe e variegata che è la sinistra americana non si è ancora ripresa dalla vittoria di Bush il 2 novembre scorso. Le teorie complottarde, le dietrologie, le storie di frodi elettorale viaggiano in rete, s'inseguono, si rincorrono, si confermano, diventano valanga. Lo senti quando vai a un dibattito dopo cena, organizzato dalla casa editrice Verso in una chiesa a Washington Square, sulla politica editoriale del ‟New York Times”: la sala è affollatissima con studenti seduti per terra. Esplode il risentimento verso il quotidiano più liberal degli Usa per come ha bevuto per due anni la menzogna delle "armi di diffusione di massa", per come ha minimizzato grandi proteste (è capitato che manifestazioni in Italia di mezzo milione di persone venissero descritte con "decine di migliaia"). La viltà di quello che avrebbe dovuto essere uno degli organi più critici di quest'amministrazione è sentita dalla platea come uno dei fattori della sconfitta: perché qui il ‟Times” è la Bibbia di tutti, moderati e radicali. Uno degli oratori dice "Il giornale ha combattuto le sue battaglie, ma il suo problema è la riverenza verso il potere e verso i poteri". A me colpisce però un'oratrice che sbotta: "Dobbiamo capire cosa è andato storto in America": ora, quest'identica espressione "In America qualcosa è andato storto negli ultimi decenni" è il ritornello ossessivo dei cristiani conservatori, degli integralisti di destra che tuonano contro il degrado dei costumi, l'immoralità dilagante, la diffusione di droga e promiscuità. Come se la sinistra si guardasse nello specchio della destra e ambedue non si riconoscessero più nella società in cui vivono.
Una recriminazione simile salta fuori in un altro dibattito, questa volta presso la Società per la cultura etica di New York, vicino a Lincoln Center. Qui il settimanale della sinistra americana ‟The Nation” discute con il vessillifero inglese del libero mercato, ‟The Economist” , sul tema dell'outsourcing, cioè dei posti di lavoro (soprattutto nei sevizi informatici) esportati in India, in Cina e altrove. Anche qui il bell'anfiteatro ligneo è stracolmo. Signorine circolano nei corridoi tra le poltrone per distribuire e ritirare i foglietti in cui vengono poste domande agli oratori. I due giornalisti dell'‟Economist” sostengono che è immorale opporsi all'outsourcing perché così si vuole che l'India resti povera e sottosviluppata. I due esponenti di ‟The Nation” fanno notare che i processi di questa globalizzazione mirano soprattutto a ridurre i salari e a minare i sindacati nei paesi avanzati. E la discussione scivola sul come mai John Kerry è stato così flebile nel difendere i posti di lavoro. Anche qui, sotto accusa è la sudditanza, questa volta dei democratici, verso i poteri forti e verso il gran capitale. A questa subalternità viene attribuita la responsabilità della sconfitta.
Katrina van den Heuvel guarda al domani e ridimensiona la sconfitta: "Bush sarà prigioniero delle sue contraddizioni. C'è l'Iraq, e ora l'Iran. E c'è l'enorme deficit di bilancio. E ora i cristiani conservatori passano all'incasso. Questi fattori lo spingeranno a prendere misure estremamente antipopolari. La privatizzazione della Social Security non sarà una bazzecola. Anche provvedimenti contro l'aborto provocheranno un'enorme ostilità popolare".
Per Michael Walzer tutto dipenderà dall'Iraq: "Se riusciranno ad aggiustare nel secondo mandato il disastro che hanno creato nel primo, allora tutto sarà più facile per questa presidenza, altrimenti, sarà dura. Mentre se avesse vinto Kerry, i democratici non avrebbero potuto lasciare l'Iraq perché sarebbero stati accusati di disfattismo come nel 1949 furono accusati di avere perso la Cina. E poi Kerry sarebbe stato un presidente debolissimo, con un Congresso a maggioranza repubblicana che gli avrebbe legato le mani".
Katrina van den Heuvel sottolinea gli aspetti positivi: "Non è che tutta la mobilitazione a sinistra adesso evapora all'improvviso. E non è che Soros e gli altri ora gettano la spugna. C'è un lavoro di ricostruzione da fare fuori dal partito democratico, perché su questo partito bisogna premere dall'esterno".
È un punto su cui sono tutti d'accordo, anche se con ricette diverse. Per Walzer dobbiamo imparare dalla destra che si è rielaborata un'ideologia e si è costruita una base: "Noi pensavamo che la destra fosse fatta di stupidi. Ma loro hanno condotto un'efficacissima guerra ideologica. Hanno finanziato e lanciato tutti questi think-tanks che hanno comprato intelligenze molto scaltre che sono riuscite a formulare una versione moderna delle loro idee ottocentesche. Noi dobbiamo ricominciare a pensare e insieme a ricostruire una base. Dobbiamo elaborare un'ideologia, perché paradossalmente l'età della fine delle ideologie è stata quella del trionfo della visione più ideologica della destra. Dobbiamo proporre una concezione della società e quindi del Welfare adeguata al XXI secolo. Bisogna rafforzare la sindacalizzazione: i lavoratori iscritti al sindacato hanno votato per Kerry a un tasso doppio di quelli non iscritti. Eppure in tutti gli anni in cui i democratici sono stati al potere non hanno fatto nulla per rendere meno difficile l'iscrizione al sindacato (che negli Usa è già di per sé il risultato di una strenua lotta d'impresa, ndr ). Ora la sindacalizzazione va aiutata. E anche il movimento deve cambiare. ‟Act” (AmericaComingTogether) e ‟MoveOn” (il sito web attorno a cui prima delle elezioni si è costruito il movimento anti-Bush) sono ancora in piedi, ma si erano allenati per i cento metri, ora devono attrezzarsi per la maratona. Tanto più che il partito democratico andrà inevitabilmente a destra, perché vorrà andare al centro, ma nel frattempo il centro si è spostato a destra".
Frances Fox Piven: "Non si può fare attivismo politico una volta ogni quattro anni e per di più su un obiettivo puramente elettorale. Su questo terreno i repubblicani sono più forti. Tutto ciò che negli Stati uniti è stato conquistato, è nato nei movimenti fuori dal Congresso: la stessa abolizione della schiavitù non sarebbe avvenuta così presto senza le "ferrovie sotterranee" con cui gli abolizionisti nordisti facevano scappare gli schiavi dal sud. E non ci sarebbe quel poco di stato sociale che abbiamo senza i grandi scioperi degli anni `30. E senza il movimento dei diritti civili l'America sarebbe ancora segregata per razze. Anche oggi abbiamo un problema di diritti violati, il diritto alla salute, all'istruzione. E più in generale un problema di democrazia: la frode elettorale, la macchinosità del sistema, la sua ingiustizia sono diventati evidenti a tutti".
Prima delle elezioni, John Nichols, vice direttore del ‟Capital Times” di Madison (Wisconsin), era stato l'unico a dire che "una vittoria di Bush non è la fine del mondo". Ora risponde al telefono mentre sta cullando la sua bambina di pochi mesi. "C'è ancora un'enorme energia immagazzinata nel movimento della sinistra, che non si disperderà dopo le elezioni. Il problema è come canalizzarla, indirizzarla, sfruttarla politicamente. Certo non lo può fare il partito democratico che si sposterà a destra e che sarà in preda a lotte intestine. Non lo farà il sindacato che è non riesce ad arginare il suo indebolimento. C'è un problema di leadership: la sinistra americana non ha mai avuto leaders ma sempre star, come Jesse Jackson, Ralph Nader o quest'anno Howard Dean che non è ancora assurto alla dimensione di leader. Certo lui è quello che mobilita di più le coscienze, soprattutto giovanili, però è del tutto disconnesso da Washington, dall'apparato democratico e dai parlamentari (Dean è stato governatore ma non è mai stato eletto alla Camera o al Senato). Quindi gli mancano le cinghie di trasmissione per mettere la sua popolarità a frutto politico. Lo stesso è vero per l'elemento più strutturato del movimento, MoveOn . La bussola politica e la soluzione del problema di leadership devono venire dal di fuori del partito democratico. Se riusciremo a canalizzare quest'enorme energia, allora Bush non avrà vita facile e le prospettive per il 2008 sono migliori. Se invece l'energia andrà dissipata, allora per Bush correrà liscio e davvero le elezioni del 2004 avranno costituito una svolta nella storia degli Stati uniti d'America" (la bambina sembra continuare a dormire profondamente).
Il problema è che questi appelli al movimento sembra di averli già sentiti. I movimenti non nascono su ordinazione, né si sviluppano a gentile richiesta del pubblico. Né possono gli intellettuali sostituirsi a movimenti che non ci sono (Hans Magnus Enzensberger una volta me l'aveva definito come il "sostituismo degli intellettuali"). E poi anche a sinistra c'è una questione razziale: il popolo di ‟MoveOn” e di ‟Act” (come d'altronde il movimento di Nader nel 2000) è essenzialmente costituito da studenti bianchi. Lo scopo comune di battere Bush ha per un breve periodo accostato gli studenti bianchi e gli attivisti sindacali neri. Ma passate le elezioni, si è riproposta questa storica frattura che condannò alla sconfitta il movimento degli anni `60. C'è solo, per usare l'espressione di Michael Walzer, da seguire la maratona.

Marco d’Eramo

Marco d’Eramo, nato a Roma nel 1947, laureato in Fisica, ha poi studiato Sociologia con Pierre Bourdieu all’École Pratique des Hautes Études di Parigi. Giornalista, ha collaborato con “Paese Sera” …