Paolo Di Stefano: “Dire no a Silvio non basta per essere scrittori”. Colloquio con Alfonso Berardinelli

01 Luglio 2005
Nel suo Autoritratto italiano, uscito nel 1998, Alfonso Berardinelli confessava di essersi accorto tardi di essere italiano. Sarà perché, come dice, la sua formazione letteraria parte dai russi dell’Ottocento: ‟Tolstoj e Dostoevskij sono i portavoce di una letteratura profondamente coinvolta nella politica”. L’attenzione alla politica arrivò molto presto anche per ragioni biografiche: classe 1943, famiglia d’origine operaia, genitori ‟un po’ comunisti scontenti, un po’anarchici”.
Poi arrivarono i fatali anni Sessanta, l’Università, i movimenti. ‟La mia piccola rincorsa fu la lettura liceale di Camus, L’homme révolté , una specie di quadro sinottico della vicenda politico morale dell’Ottocento”. Allievo irrequieto di Giacomo Debenedetti, guarda alla Scuola di Francoforte, al surrealismo di Breton, all’antipsichiatria di Laing, a Giudici, a Fortini, a Volponi, a Barthes e a Enzensberger, a Auden e Edmund Wilson. Non gli piace la neoavanguardia: ‟Leggendo l’antologia sperimentale dei Novissimi, mi venne in mente una frase di Eliot secondo cui la prima e forse la sola responsabilità pubblica che ha un poeta è nei confronti della lingua. Ecco, a me pareva che alcuni poeti della neoavanguardia la distruggessero, la lingua. Guardavo con più interesse a Pagliarani”. È una delle sue tante posizioni polemiche. Le invettive di Berardinelli, con gli anni, si sono scagliate contro gli strutturalisti, contro gli heideggeriani di sinistra (‟Di che cosa ci parlano Vattimo e Cacciari? Si rendono conto di che linguaggio usano, se è vero che la lingua è la cosa?”) , contro Eco (‟Di che pasta sono fatti i suoi libri? Qualcuno ha notato quanto poco spiritosi siano?”) , contro Citati, contro la cosiddetta ‟moda Adelphi”.
In realtà Berardinelli, sin dagli anni Sessanta, sta da un’altra parte: ‟Il problema letteratura politica per me era diventato ossessivo: ma alcuni autori mi avvertivano che tra letteratura e politica c’era soprattutto estraneità, per non dire competizione. Uno scrittore politico dovrebbe diventare un critico della politica dei politici” . Con queste premesse, quando esplode il Sessantotto, Berardinelli ne rimane deluso: ‟Notai subito un certo folclore, una teatralità esibizionistica. Sembrava che all’improvviso il discorso culturale sulla società fosse superato dalla prassi e che si fosse stabilito un primato schiacciante della politica politica secondo schemi tradizionalistici. Questa cosa non mi ha convinto” . Ciò che Berardinelli non manda giù è anche l’inguaribile sordità che la sinistra oppone a scrittori come Orwell, Silone, Simone Weil, Koestler. ‟Quelle letture furono l’inizio del mio addio alle formazioni dell’estrema sinistra capeggiate da individui per i quali non ebbi mai né simpatia né stima, e cioè i vari leader di Potere Operaio, di Avanguardia Operaia e di Lotta Continua” . La rabbia antipolitica lo porta a rompere anche con Fortini: ‟Fortini aveva introiettato a tal punto il marxismo come priorità assoluta che, dall’eterodosso che era negli anni Cinquanta, diventò poi un neo ortodosso. Il suo stile nobilmente tormentato era spesso capzioso e inadatto a dire con chiarezza che cosa è davvero la politica. Finiva per mitizzarla” . Fu un’incubazione molto lunga, quella di Berardinelli, che sfociò nel ‘97 nella pubblicazione de L’eroe che pensa , che raccoglieva i saggi scritti per oltre un decennio: ‟La conclusione fu che tra l’intellettuale e il politico non c’è conciliazione, semmai un rapporto di strumentalizzazione reciproca. Entrare in concorrenza o in collaborazione con i politici, per un intellettuale, è autodistruttivo”.
Berardinelli passò attraverso l’esperienza di un’antologia del ‘75, curata con Franco Cordelli, Il pubblico della poesia : si trattava di un’opera militante che voleva ripartire dalle ceneri della neoavanguardia: ‟A sette anni dal Sessantotto, di poesia non si sapeva più niente e noi volevamo proporre una nuova generazione di autori rimasti underground. La neoavanguardia, con il suo spirito di corpo un po’ militaresco e con il teoricismo di Sanguineti, aveva cancellato gli spazi alternativi. Con Zanzotto avevano un pessimo rapporto. Per loro, Caproni, Bertolucci, Luzi, Giudici e Sereni non esistevano” . Dunque, dalla neoavanguardia non è venuto proprio niente di buono? ‟Ha prodotto una specie di epigonismo sotto controllo. Quel che rifiuto della mentalità delle avanguardie in genere (che oggi rischia di riproporsi) è l’idea che in unmomento dato della storia sia possibile una sola soluzione artistica: l’unica, la più avanzata e la più adeguata al presente”. Ma ci sarà pur stata una fase, nel dopoguerra italiano, in cui si pensava di poter ‟programmare” la letteratura sulla base di un ideale politico. È facile pensare al gruppo Einaudi, alla rivista Il Politecnico , al Menabò , eccetera. ‟Non si può dimenticare che in quegli anni vennero fuori scrittori come Carlo Levi, Calvino, Pasolini, Nicola Chiaromonte, Savinio, Gadda, la Morante. Vittorini e Pavese li amo un po’ meno. Fu un momento di grande intensità e carico di molte promesse” . E poi ci fu il laboratorio di casa Olivetti: ‟In effetti gli scrittori da cui sono stato più attratto avevano lavorato in Olivetti: Volponi, Fortini, Giudici, anche Pampaloni”. Ma alcuni di questi si possono definire scrittori politici? ‟Il fatto è che un interessante scrittore " politico" in realtà si occupa più di società che di politica. Il problema della politica italiana è che spesso si fa cogliere di sorpresa dai mutamenti sociali. I partiti non hanno tempo per capire il mondo: devono restare a galla e questo esaurisce tutte le loro energie”. E quali sono gli scrittori sociologicamente più sensibili? ‟Pasolini, Volponi, Giudici sono stati degli acutissimi e a volte geniali sociologi. Mai politici hanno sempre pensato ad altro: per quanto piccolo, il potere è la loro ossessione” . Senza eccezioni? ‟I momenti di felice coincidenza tra letteratura e politica sono rari e forse anche frutto di un momentaneo malinteso: presto o tardi lo scrittore politicizzato si ritrova isolato o diventa un elemento della nomenklatura”. Eppure c’è stata, negli ultimi tempi, in varie forme e occasioni, una dichiarazione di antiberlusconismo da parte di molti nostri scrittori: ‟Purtroppo molti credono che basti dire " odio Berlusconi" per sentirsi politicamente a posto. Paolo Flores d’Arcais anni fa era più esigente e selettivo quanto a scrittori. Negli ultimi anni si è accontentato che " firmassero" per il no al centrodestra. È un po’ poco, mi pare” . D’altra parte, qualcuno di questi ha rimproverato a Berardinelli (che nel frattempo ha lasciato polemicamente l’insegnamento universitario e ha interrotto il suo rapporto editoriale con la Bollati Boringhieri) di aver venduto l’anima al diavolo accettando di scrivere per ‟Il Foglio” di Ferrara: ‟Ho già risposto che non temo il contagio, sia perché mi ritengo ontologicamente di sinistra, sia perché nessun giornale finora mi ha offerto condizioni di lavoro più libere di quanto mi concede Ferrara. Certo, Ferrara deve essere davvero diabolicamente astuto! O meglio, i miei articoli alla sinistra non interessano. Preferiscono altro” . In passato c’è stato qualche problema nel rapporto tra sinistra storica e intellettuali: vedi alla voce Quaderni piacentini . ‟Senza dubbio, il mio amico Piergiorgio Bellocchio, quando fondò la sua rivista, aveva in programma, per così dire, un uso politico più diretto del linguaggio critico e letterario. Bellocchio era un giovane scrittore dotato ma votato al sacrificio, e finì per scrivere pochissimo: quando i Quaderni piacentini si riempirono di intellettuali militanti, visse quasi prigioniero della sua rivista, che per lui non era più uno strumento adatto” . Poi nell’85, Bellocchio e lo stesso Berardinelli fondarono una rivista che sin dal titolo, ‟Diario” , rivelava obiettivi opposti: ‟La situazione era molto cambiata, non aveva più senso dire " noi", bisognava usare la prima persona: " io", partendo da quello che un individuo ai margini dell’ufficialità e delle istituzioni riesce a vedere di una società e di una cultura in trasformazione. Lì Bellocchio scrisse degli straordinari saggi brevi, aforismi e microracconti che fanno di lui uno dei migliori scrittori politici del nostro tempo. Manon è un chiacchierone e i suoi libri sono introvabili” . E poi c’è Cesare Garboli: ‟Le sue viscere erano letteralmente invase dall’infelicità e dalla nevrosi italiana. Diceva che il suo fegato non funzionava più da quando era comparso Berlusconi: mi disse anche che la sua fondamentale intuizione politica era stata la riproposta del Tartufo di Molière, un’invenzione del XVII secolo che aveva invaso l’Italia della seconda metà del Novecento. Per lui il Tartufo era molto più che un ipocrita, era la materia stessa di cui sono fatti almeno al 50 per cento gli intellettuali, gli accademici e i politici: impostori che usano la cultura per costruire piccoli poteri e continue trame. Una immagine preziosa di sociologia visionaria. Un incubo”.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …