Irene Bignardi: Alberto Lattuada. "La mia colpa? Non essere allineato"

04 Luglio 2005
‟La mia colpa”, disse una volta Alberto Lattuada, ‟è che non sono allineato”. Si festeggiava in pompa magna il suo ottantesimo compleanno a Milano, in quella che era ed è rimasta anche dopo cinquant´anni di Roma la sua città, la città della sua formazione e del suo imprinting culturale. E Lattuada, che pure non era certo un uomo incline alla lamentela o all´autocommiserazione, sempre cordiale, allegro, vivacissimo, aveva voglia di mettere i puntini sulle "i": perché non deve essere piacevole, anche se sei stato lo scopritore di Jacqueline Sassard, di Nastassja Kinski e di Catherine Spaak, essere ricordato solo e soprattutto come il più dotato talent scout di ninfette in fiore con un futuro di attrici, quando si ha invece alla spalle una solida, importante, articolata storia culturale e cinematografica.
In un´intervista a Tullio Kezich, rispondendo a una domanda sul suo presunto eclettismo - questa etichetta che assieme a quella di ‟calligrafo” lo seguì per tutta la vita - una volta Lattuada elencò i suoi film più importanti e gli ‟spunti”, come li chiamava riduttivamente, che lo avevano interessato. Nel caso di Il bandito era ‟il dramma del ritorno dopo la guerra”. Per Senza pietà, ‟il razzismo”. Il mulino sul Po? ‟La lotta di classe nella campagna”. In Il cappotto, ‟l´orrore della burocrazia”; in La spiaggia, ‟l´ipocrisia borghese”; in La tempesta, ‟il fallimento delle rivolte spontanee”; in I dolci inganni, ‟la liquidazione del mito della verginità”.
Come dire: non c´è bisogno di fare proclami, di sbandierare ideologie o di predicare, per affermare le cose che ci stanno a cuore, per fare la sua pratica di moralista della libertà. E Lattuada, che si dichiarava ‟socialista”, a dispetto di tutti gli slittamenti (e i peggioramenti semantici) che la parola ha assunto nel corso degli anni - e forse perché lui parlava di un socialismo più autentico e profondo, quello che chiamava ‟la grande speranza del nostro secolo” e del cui crollo dichiarava di avere sofferto - aveva delle cose importanti da dire, anche se la sua bravura e il suo professionismo da grande uomo di spettacolo hanno fatto premio sul resto. E basterebbe vedere quel capolavoro che è "Il cappotto" per dirsi che forse le gerarchie dei valori cinematografici sono facili da sovvertire.
È una cultura solida e non esibita quella che esce nei suoi film: la cultura del giovane milanese che si laurea in architettura, che fonda con Alberto Mondadori il quindicinale ‟Camminare” (nel 1932), che dà vita, assieme ad Ernesto Treccani, a ‟Corrente” (nel 1938), con cui fa la fronda al regime, che fonda con Luigi Comencini e Mario Ferrari la Cineteca italiana, che scrive di cinema su ‟Domus”, che sceneggia e fotografa, che tra un film e l´altro si dedica anche alla regia di opere liriche, che fa debuttare con lui Fellini nell´incantevole "Luci del varietà". Paradossalmente il successo - di "Anna", di "Guendalina", di "I dolci inganni" - e le doti di grande artigiano hanno messo in ombra l´artista e l´uomo colto. O forse è stato anche lui, nel suo modo disinvolto e semplice di presentarsi, a volerli mettere in ombra: non aveva l´etichetta di cinema impegnato, ma il suo discorso andava più lontano.

Irene Bignardi

Irene Bignardi (1943) ha lavorato per il servizio cultura de “la Repubblica” fin dalla sua fondazione, e per lo stesso quotidiano è stata critica cinematografica; ha diretto il MystFest, ha …