Paolo Di Stefano: Noi di Tondelli, generazione perduta

29 Agosto 2005
Che cos’è stata la generazione di Pier Vittorio Tondelli? Che cosa ha rappresentato la generazione di quelli che oggi hanno cinquant'anni e che nel 1980, quando uscì il primo libro di Tondelli, Altri libertini, avevano venticinque anni? E che ne avevano solo trentasei quando Tondelli morì, nel 1991, malato di Aids? A questa domanda risponde un suo coetaneo e amico, Enrico Palandri, che a Tondelli e alla generazione dedica un pamphlet-testimonianza di notevole interesse per capire l'Italia di quell'epoca, autoritaria e persecutoria verso i propri figli. Così, almeno, la vede Palandri, l'autore di Boccalone, libro generazionale per eccellenza, che con l’esordio di Tondelli (anzi, un anno prima, nel ‘79), aprì una nuova stagione letteraria: una stagione di marginali e di superstiti che raccontavano i marginali e i superstiti. Superstiti di che? «Superstiti di una società dove un’ondata di benessere ha sgangherato le alleanze sociali», scrive Palandri. Una generazione di eretici. Di «nomadi, senza partiti, senza progetti di potere ma piuttosto espressione di una vitalità dei margini, di chi non fa il capopopolo, di compagni di naia o di avventura che non affrontano la storia ma le storie». Palandri non ha conosciuto il lato più trasgressivo e temerario del suo amico Pier, né sbronze né canne. Lo conobbe a Carpi, in una serata pubblica nella primavera dell’80, poco prima di andare a vivere a Londra. Nella stessa città che per Tondelli sarà il fulcro del sound generazionale. Il libro di Palandri parte da qui, dall’autoespulsione dei giovani degli anni Settanta. «Tondelli - dice Palandri - era un italiano, un italiano molto territoriale, per lui l’Emilia è il centro del mondo. La sua espulsione è anche un po’ leopardiana: Correggio come Recanati. Si sente prigioniero della propria storia e vuole liberarsene, emanciparsi. A me era capitato qualcosa di diverso: io ero un figlio dello Stato e mio padre era un ufficiale di carriera, venivo da una famiglia che si è sempre spostata da un luogo all’altro. Eravamo figli di due modi diversi, quasi opposti, di essere italiani: l’uno ben radicato nel territorio, l’altro pieno di spostamenti». In comune, però, il paradigma dell’espulsione: «La nostra generazione fu educata da fascisti: genitori, maestri, professori erano stati fascisti che avevano orrore della diversità e della differenza. Persino Pasolini era pieno di pregiudizi contro i capelloni. L’autoespulsione era l’unica maniera per emanciparsi». Ma non è stata un’autoespulsione un po’sterile, incapace di creare vere alternative politiche? «Non c’era nessun partito che potesse assorbire la nostra ribellione, tanto meno il Pci, che era arroccato su posizioni un po’ filosovietiche e non era interessato a creare spazi alternativi lasciandosi attraversare da ondate come la nostra». Spazi chiusi anche dalle minacce del terrorismo? «Il terrorismo coinvolse cinquemila persone su 50 milioni di italiani: ma fu un fatto gravissimo che fece dell’Italia un Paese in stato di guerra. Si creò una sorta di patto politico, di compromesso storico che in nome della lotta al terrorismo portò alla cancellazione di ogni tipo di contestazione, di ogni esperienza più ampia di scoperta, un patto politico che si oppose a ogni movimento di dissenso: anche quando non era organizzato ma fatto di intuizione, veniva percepito come contiguo alle Br. Così, dietro l’etichetta del terrorismo è finito tutto ciò che di creativo fu proposto in quel periodo, la società civile ha scomunicato quegli anni e noi ci siamo ritrovati in un’eresia». Palandri parte da più lontano e arriva ai nostri anni. In sostanza, vede nel dopoguerra due spinte successive: «Fino agli anni ‘70 l’Italia ha vissuto decenni di emancipazione e di progresso, dagli ‘80 a oggi c’è stato un periodo di grande riflusso, anni di declino opposti alla secolarizzazione, la Chiesa cattolica è ritornata a essere protagonista e con la Chiesa sono tornate la destra e la concentrazione delle risorse». La generazione di Pier si trovò nel mezzo di questa frattura, senza poter opporre resistenza o senza saperlo fare? «La nostra generazione è diventata il bersaglio di un rigetto in nome della lotta al terrorismo. Così avvenne che un’esperienza politica di gruppo che durava da un decennio, tra il ‘68 e il ‘77, si infranse in modo catastrofico contro un fronte compatto: e noi ci trovammo a dover digerire la storia da soli». A differenza dei «fratelli maggiori» che fecero scelte più forti, segnate da un impulso collettivo: «La sentenza Sofri - dice Palandri - acquietò l’Italia con una sorta di rimozione generale. La magistratura lo mise sul piano di Curcio. Dissero: in fondo sono tutti sovversivi Forse Sofri ha scritto meglio di Tondelli su quegli anni, ma viene letto ancora oggi in modo molto fazioso: la contrapposizione degli anni ‘70 per lui, disgraziatamente, non è finita. E se c’è un riaccorpamento à rebours è centrato sul senso di colpa». Dunque Tondelli è una figura-simbolo della solitudine dei fratelli minori? «Quegli stessi contenuti che in Sofri vengono letti come politicamente immatricolati, in Tondelli riescono a funzionare in modo trasversale. Io mi sento sicuramente più sofriano, con Boccalone e con i due libri successivi, cioè sono più sensibile alla frattura politica di quegli anni. Tondelli invece non ne parla, ha sentito meno la botta, è meno interno alle cose politiche: riesce a scartare l’effetto più cupo dell’epilogo degli anni ‘70 e a rispondere in modo creativo, aperto, lasciandosi alle spalle una eredità genericamente politica e rivolgendosi invece a tutto ciò che l’Italia sta diventando. Sceglie il presente». Per questo diventa un punto di riferimento generazionale? «Riconosco a Tondelli il fatto che escludendo l’impasse politico che invece io ho affrontato, è riuscito a trasmettere i contenuti degli anni ‘80 più di quanto sia riuscito a gente come me. Pier è indubbiamente una figura di riferimento: la sua vitalità è laterale rispetto ai conflitti, eppure riesce a portare negli anni ‘80 i contenuti di questi conflitti meglio di altri che si identificarono di più in quell’epoca. Sofri se n’è accorto sulla sua pelle, ha capito che la politica è irredimibile». È vero che libri come Pao Pao, Rimini e Camere separate non hanno nessuna ambizione di misurarsi con la «frattura» politica degli anni ‘70, sono ben diversi da Porci con le ali o Boccalone. Ma anche Altri libertini è un’altra cosa, rispetto a Boccalone: «È un libro più cucinato editorialmente, l’ha raccontato anche lui: alle sue spalle ci fu un’attenzione della Feltrinelli verso il possibile lettore. Altri libertini fu un’operazione editoriale, mentre Boccalone uscì da un piccolo editore un po’ per caso, senza nessun progetto commerciale, era una specie di cronaca sentimentale. Credo che i successivi libri di Pier appartengano di più a lui rispetto al primo». Anche nel senso che sono meno intenzionali e più antipolitici? «Pier guardava da un’altra parte, dove il ‘68 non avrebbe visto nulla. I suoi personaggi sono a proprio agio negli anni ‘80, sono lo spirito un po’sventato, legato alla ricerca di una professione e al successo, alla moda e semmai al piccolo intreccio poliziesco, locale; non vogliono misurarsi con scontri epocali. I libertini sono diventati eretici, ma tutti ormai lo sono».

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …