Paolo Di Stefano: "Basta con i cannibali, la nuova generazione è flessibile". Colloquio con Aldo Nove

17 Novembre 2005
Da Woobinda sono passati quasi dieci anni e molta acqua sotto i ponti. È passata la stagione dei ‟cannibali” a cui Aldo Nove, con tutta la sua cultura filosofica (laureato sulla sinistra hegeliana in Italia) e classica (ha tradotto Virgilio e Lucrezio), è fieramente appartenuto. Anzi, di più, perché non aveva ancora trent’anni, nel ‘96, quando già veniva indicato come il caposcuola dei ‟pulp” italiani o meglio, come ha osservato Barilli, di una ‟terza ondata” avanguardistica che riconosceva quali padri putativi Sanguineti e Balestrini. Da Woobinda sono passati una decina di libri, comprese le poesie e compreso il viaggio metropolitano di Milano non è Milano. Titolo del prossimo libro: Mi chiamo Roberto, ho quarant’anni e guadagno 250 euro al mese. ‟Un’antologia di interviste a lavoratori flessibili senza prospettive di nessun futuro”, postilla Aldo Nove. È questo l’impegno? ‟Sento l’esigenza di documentare la situazione attuale dell’Italia”. Dopo la grande illusione delle generazioni da ipermercato, la grande delusione della precarietà nel lavoro? ‟L’Italia d’oggi per un ventenne è molto peggiore rispetto all’Italia degli anni 90: quel che cerco di fare come scrittore è aprire gli occhi e documentare ciò che sta succedendo alla mia generazione fregata e incastrata dalla storia. Il mio scopo è: esserci ora”. E che cosa sta succedendo? ‟Di fronte al mutamento velocissimo, ognuno si costruisce un proprio rifugio e vive lì dentro isolato: è la solitudine dell’uomo globale, per citare il titolo del libro di Bauman”. I ragazzi cresciuti a base di Beautiful, Cip e Ciop e bagno-schiuma Vidal si ritrovano con in mano un pugno di mosche? ‟Io ho cominciato raccontando i sogni deviati di una generazione che a vent’anni aspirava a essere integrata nel mondo occidentale del consumo, un mondo senza grandi progetti etici o fughe romantiche, ma che prometteva un grande appagamento. Oggi quella stessa generazione vive lo scontro con una realtà economicamente drammatica che non offre nessuna sicurezza: c’è di mezzo non solo una realtà biologica ma anche una realtà storica. Le ragazze che sognavano di diventare veline oggi vorrebbero fare un figlio e non possono permetterselo”. Questi sono i temi della letteratura impegnata del Duemila? ‟Diciamo che l’interiorità è già stata tutta scritta. La letteratura intesa in quel senso è morta e non si può aggiungere molto. Per secoli il buddhismo, il cristianesimo, l’ebraismo hanno guardato dentro l’individuo in tutti i modi. Oggi bisogna raccontare il cambiamento, attraversare questa palus putredinis, come insegna molta letteratura da Dante a Sanguineti: l’inferno e il purgatorio in cui viviamo. C’è già qualcuno che lo fa bene...”.
I nomi segnalati da Aldo Nove sono di quelli che circolano poco sui giornali: Francesco Dezio, che con Nicola Rubino è entrato in fabbrica ha raccontato la nuova figura dell’operaio precario e flessibile: ‟Un lavoratore privo di coscienza di classe e di tutele sindacali. Non è più l’operaio massa che sviluppa una solidarietà con gli altri. Nel mondo delle agenzie interinali e dei lavoratori a prestito il nemico reale è chi lavora con te, tutti sono contro tutti, magari per comperarsi il cellulare migliore. I tempi di produzione sono accelerati e non ti permettono di organizzare un’opposizione o una rivolta”. E poi: Andrea Bajani con Cordiali saluti e Giorgio Falco con Pausa caffè. Dunque, impegnarsi a raccontare i mutamenti sociali, mentali, antropologici, senza troppe fughe fantastiche? ‟Pound diceva che la letteratura è il nuovo che resta nuovo. La scommessa è capire, in quel che accade oggi, che cosa può rimanere nel tempo e lasciare testimonianza dei nostri presenti: Marcuse parlava dell’uomo a una dimensione. Oggi l’uomo ha quarantamila dimensioni, perché è costretto a lavori e a ruoli sempre diversi e finisce per avere gravi problemi di definizione dell’ego”. Nove è scrittore, traduttore, giornalista, consulente di case editrici. Scrive per Liberazione perché: ‟È lì che mi colloco e mi sono sempre collocato”. Ma è poi così diversa la sua condizione di intellettuale rispetto a quella del passato? ‟L’orizzonte etico, culturale, storico e sociale è cambiato completamente. Siamo passati da una condizione di possibile dubbio e interrogazione a una condizione coatta di incertezza e di ansia. Non è più possibile articolare grandi sogni perché l’unica realtà definita, al massimo, è nello spazio quotidiano. Il sol dell’avvenire è alle spalle. Figure come Pasolini mi mancano tantissimo, con la sua capacità di mettersi in gioco: le sue polemiche erano tutta salute”. Eppure qualche attività collettiva Aldo Nove l’ha sperimentata. Per esempio, la scrittura poetica con Tiziano Scarpa e Raul Montanari, con conseguenti performance teatrali (‟Lavorare insieme in un territorio così egoistico e narcisistico come quello della scrittura poetica è stato il tentativo di abbattere le barriere della incomunicabilità o dell’autoreferenzialità”). Qualcosa di simile a ciò che quarant’anni fa faceva la neoavanguardia, accusata per un verso di essere troppo interessata all’egemonia culturale, per l’altro verso di avere un approccio troppo giocoso con la parola? ‟Mengaldo ha escluso dalla sua antologia il troppo ludico Balestrini. È un fatto tipicamente italiano: quando Fo ha vinto il Nobel tutti a dire: ma come, un buffone...? Ma cosa sono Cervantes e Rabelais? E viceversa, Leopardi e Kafka sono seri? C’è una tendenza a rifiutare il ludico come se la comicità o il sarcasmo significassero non prendere sul serio la realtà e come se il tono modulasse il valore o l’impegno”. Si ha l’impressione, ogni tanto, che l’incomunicabilità riguardi anche il mondo della letteratura e quello della critica. ‟Rispetto agli anni ‘60 e ‘70, in cui prevaleva il lavoro critico, le cose si siano rovesciate. Io a volte mi sento orfano della critica. Da Segre e Spinazzola, che sembrano drammaticamente ultimi, alle nuove generazioni c’è un salto pauroso”. Non c’è proprio nessuno, possibile? ‟Pochi: Andrea Cortellessa come critico letterario, Labranca come critico della cultura e delle mitologie, una figura prossima e affidabile. Filippo La Porta mi ha sempre frainteso: per capire cosa non sono leggo La Porta...”. A proposito di testimonianze del presente, che cosa è rimasto di tante narrazioni pulp? ‟Il pulp in Italia è nato nel ‘96 come fenomeno editoriale, ma non è stato un esperimento da laboratorio a freddo. In pochi mesi sono emersi nomi nuovi di scrittori, Santacroce, Ammaniti, Caliceti, Scarpa, Nove e altri, che provenivano da esperienze culturali non omogenee ma che raccontavano tutti una quotidianità diversa da quella che si trovava nella letteratura italiana, di cui tutti peraltro eravamo appassionati lettori. Un movimento spontaneo da cui venne fuori la categoria dei pulp. Ma l’impegno per un critico dovrebbe essere quello di valutare i libri caso per caso, di tornare ai testi evitando le categorie”. Qualcuno ha detto che la generazione pulp era accomunata dal fatto di raccontare le merci e il mondo del consumo con uno spirito critico che spesso nascondeva un certo compiacimento: ‟Era un’osservazione in parte giusta ma ingenerosa. Il fatto è che non fai apposta a nascere in un contesto sociale: io ho passato la mia infanzia con la tv e l’omino della Bialetti oggi mi commuove. La questione del desiderio è fondamentale e non può non condizionare. Anche per Marx il mondo incantato delle merci ha a che fare con il nostro desiderio. Ed è normale che io oggi abbia un rapporto più forte con il computer che con la bellezza delle montagne tibetane: vivo a Milano, in quest’epoca. Io parto dalla mia esperienza, senza truccare le carte, per fare il punto sullo stato delle cose, per elaborare una critica o una verifica dei poteri. Chi ci critica non si rende conto che siamo dei vecchi moralisti”.

Paolo Di Stefano

Paolo Di Stefano, nato ad Avola (Siracusa) nel 1956, giornalista e scrittore, già responsabile della pagina culturale del “Corriere della Sera”, dove attualmente è inviato speciale, ha lavorato anche per …